Ultimi giorni di maggio del 1944.
Una trentina di uomini, malamente armati, raggiungono il ristretto altopiano che sorge a ovest dell’abitato di Monterenzio, nella frazione di Castelnuovo di Bisano.
E’ il primo atto politico-militare della 46ª Brigata Garibaldi. Attorno alla piccola formazione si raccolgono, nei primissimi giorni, nuclei di resistenti che agivano isolatamente nelle zone limitrofe.
Qualche settimana dopo, per disposizione del CUMER (Comando unico militare dell’Emilia-Romagna), la denominazione della Brigata viene modificata: 62ª Brigata Garibaldi, e tale rimane fino alla liberazione.
Errore, veniale, della «burocrazia» partigiana? Fatto sta che nel Parmense un’altra 62ª Brigata Garibaldi è passata alla storia con la coda «bis».
Dal maggio all’ottobre del 1944 la 62ª, via via estendendo il proprio organico e consolidando la propria struttura di unità democratica (quella democrazia partigiana splendidamente vergine!), militare e civile a un tempo, opererà nella zona di Castelnuovo e successivamente in quella più vasta dei Casoni di Romagna e di Ca’ del Vento, con alterne fortune e vicende.
Verso la fine della sua vita di montagna la 62ª aggiungerà all’originaria intestazione due parole fra virgolette «Camicie Rosse»; inoltre, i suoi partigiani, per onorare un valoroso compagno di lotta caduto sotto il piombo tedesco, la chiameranno più sbrigativamente Brigata «Pampurio».
Giancarlo Lelli (Pampurio), un giovane di Pianoro, venne colpito a morte il 2 ottobre del 1944 nel corso di un combattimento esploso davanti a Sant’Anna, base partigiana e infermeria della Brigata inopinatamente scoperta da una pattuglia tedesca.
All’apice della sua attività, negli infuocati mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre del 1944, la Brigata controllerà una zona d’operazioni di circa 280 chilometri quadrati, situata, grosso modo, in un rettangolo irregolare che vede a nord gli abitati di Sasso Marconi, Pianoro e Casalfiumanese, e a sud le case di Marzabotto, Monzuno, Loiano e Castel del Rio; altri due comuni, Monterenzio e Fontanelice, sono compresi in questo rettangolo partigiano.
Tre le strade nazionali che interesseranno l’azione militare dei garibaldini della «Pampurio»: la S.S. 64 Porrettana, la SS. 65 Futa e la SS. 9 Emilia, oltre a numerose strade provinciali e comunali.
L’intera zona non presenta asperità di rilievo, il punto più elevato essendo il falsopiano dei Casoni di Romagna, a 751 metri sul livello del mare, tutto il resto estendendosi in terreno collinare, scarsamente boscoso, percorribile facilmente in ogni senso con mezzi motorizzati di ogni dimensione.
Cinque i fiumi di una certa importanza: Reno, Setta, Idice, Sillaro e Santerno.
Con le punte estreme, formate da piccoli distaccamenti che stabiliscono le loro basi a pochi chilometri dalla città di Bologna e della pianura Padana, la 62ª Brigata è la formazione partigiana più vicina al capoluogo emiliano tra quelle componenti la Divisione partigiana «Bologna - M - Lupo», raggruppante le Brigate partigiane della montagna bolognese e romagnola: «Stella Rossa» 36ª Garibaldi, «Matteotti» di Montagna, «Giustizia e Libertà», 62ª e 66ª Garibaldi.
La Divisione fa parte del Gruppo Divisioni «Bologna , comprendente la «Lupo», la «Mario» (di pianura), la «Nannetti» (operante nel bellunese) e la 7ª «Modena» operante nel Modenese; il gruppo era diretto dal CUMER il cui comandante, com’è noto, era Iluo Barontini (Dario).
A sud-ovest del rettangolo suddetto si stendeva il dispositivo militare della «Stella Rossa», a sud si collocava la 36ª Garibaldi, a est la 66ª Garibaldi, le altre Brigate della Divisione «Lupo» agivano alle spalle della 36ª e della 66ª.
Ovviamente, le posizioni delle Brigate si intersecavano, sia per i rastrellamenti cui erano sottoposte e che le costringevano a modificare le loro posizioni, sia per i continui spostamenti dettati dalle necessità dell’azione militare e dalla ricerca, sviluppata sulla base dell’esperienza, della migliore posizione tattico-strategica, la più atta ad essere difesa e la più agevole come base di lancio per le azioni offensive.
La 62ª Brigata ebbe un organico massimo di 671 militanti, fra partigiani combattenti e addetti ai vari servizi: trasporti, collegamenti politici e militari, in formazioni, vigilanza e assistenza, fornitori di basi e di alloggiamenti provvisori, guide. I caduti (in combattimento o fucilati dai nazifascisti) furono 81 e molte decine i feriti e i mutilati.
Fra i caduti della «Pampurio» due i comandanti di Brigata: Mario Bordoni (Mariano) e Luciano Proni (Kid); un vice comandante di Brigata: Giovanni Cerbai (Giannetto); due i commissari di Brigata: Libero Baldi (Libero) e Mario Ventura (Sergio).
Mariano e Giannetto avevano combattuto in terra di Spagna nelle Brigate internazionali; Libero e Sergio erano stati lunghi anni detenuti nelle carceri fasciste, scontando le dure condanne subite dal Tribunale speciale.
La continuità del legame fra lotta antifascista e lotta di liberazione trova in questi uomini la sua più chiara conferma.
L’attività della «Pampurio» è sistemabile in tre grossi periodi: nel territorio di Castelnuovo di Bisano (maggio-agosto), su falsopiano dei Casoni di Romagna (settembre), sulle colline che si alzano a nord del torrente Sillaro, fra Montecerere e San Clemente (settembre-ottobre).
A questi periodi bisogna aggiungerne un quarto, che non interessa la Brigata in quanto tale ma i suoi combattenti (dal novembre 1944 all’aprile 1945).
Nel novembre 1944 l’avanzata degli alleati cessa, e non in seguito alla reazione del nemico ma per un preciso calcolo politico-militare: il fronte italiano, dopo lo sbarco in Normandia, diventa per gli alleati di secondaria importanza, inoltre, ed è questo il lato inconfessabile di quel calcolo, le forze partigiane italiane sono troppo «rosse» e un loro grave logoramento — che non potrà mancare nel corso di un inverno in cui dovranno affrontare l’offensiva rabbiosa dei nazifascisti sollevati delle pene di un fronte in movimento va incoraggiato e agevolato in tutti i modi.
Il generale Alexander consiglierà addirittura lo scioglimento delle formazioni partigiane in attesa di tempi «migliori».
Il ristagno del fronte getta le formazioni della Divisione «Lupo» in una situazione insostenibile.
Le Brigate, prese in « contropiede » dato che si apprestavano a partecipare alla liberazione di Bologna, sono poste brutalmente davanti al seguente bivio: o tentare il superamento del fronte o iniziare il ripiegamento su Bologna e la circostante pianura.
Una forte offensiva tedesca spezza in due parti lo schieramento della «Pampurio».
Come conseguenza irrimediabile alcune compagnie dovranno scendere verso la città (quei partigiani verranno accolti nelle file delle Brigate della città e della pianura) e le altre varcheranno le linee del fronte mettendosi in un primo tempo a disposizione degli alleati, successivamente, nel febbraio del 1945, si arruoleranno in blocco nel «rinnovato» esercito italiano inserendosi, quindi, nelle regolari formazioni del Corpo italiano di liberazione in linea con gli angloamericani.
Quale fu l’apporto militare della 62ª Brigata Garibaldi alla guerra di liberazione?
In quale misura, cioè, la Brigata assolse il suo compito nella Divisione «Lupo», nella veste quindi di unità d’attacco nella lotta armata contro i nazifascisti.
La lettura del diario di guerra e dei bollettini della Brigata fornisce una informazione abbastanza precisa dello sforzo bellico compiuto. Occorre tenere nel dovuto conto — per un giudizio obiettivo — che la «Pampurio» non ebbe «avio lanci» di armi e di altro materiale, che il suo armamento era il frutto di azioni compiute contro il nemico, e che operava in una zona, lo si è detto, né impervia, né inaccessibile.
La prima azione militare di un certo rilievo viene così descritta nel diario della Brigata:
« La sera del 13 giugno, verso le ore 17,30 una squadra distaccata in località X (Castelnuovo di Bisano, n.d.r.), composta di 8 uomini, si portava nell’abitato di Bisano per effettuare un prelevamento di viveri.
Una delle sentinelle appostate sulla strada che da Bisano porta a Monterenzio veniva attaccata da una pattuglia di 4 tedeschi e, pur rispondendo al fuoco, rimaneva ferita ad un braccio.
Alla pronta reazione di tutta la squadra i tedeschi si davano alla fuga protetti dal fuoco delle armi automatiche in loro possesso. E’ sicuro il ferimento di uno dei tedeschi.
Nella loro fuga i tedeschi abbandonavano due biciclette, un telo da tenda, 2 bombe a mano e una borsa di pelle con documenti di nessuna importanza ».
Il breve scontro costituì l’atto ufficiale della presenza nel territorio del comune di Monterenzio di una formazione militare della Resistenza. Poche ore dopo la «Pampurio» ebbe i primi caduti:
« Nella stessa notte un’altra squadra della Brigata, composta di 17 uomini, partiva per un’azione.
Durante il tragitto, al passaggio obbligato di un ponte sull’Idice nei pressi di Bisano, la squadra veniva attaccata alle spalle da una pattuglia tedesca, appostata in posizioni coperte, i cui uomini aprivano un intenso fuoco di armi automatiche.
Questo attacco provocava la morte del commissario politico della Brigata (Libero Baldi, ucciso da una raffica di mitra, n.d.r.) e di un altro componente la squadra (Angelo Cevenini, n.d.r.), mentre tre partigiani rimanevano feriti.
Il buio profondo e la fulmineità dell’azione alle spalle hanno provocato un certo disgregamento della squadra, che solo in un secondo tempo provvedeva a recuperare i colpiti».
Serie le conseguenze di questo fatto d’arme. La 62ª Brigata, composta di poche decine di uomini, diversi dei quali privi di armamento, vide una parte dei suoi militanti abbandonare la zona di Castelnuovo, ritenuta troppo pericolosa.
Una pattuglia della 36ª Brigata Garibaldi li prese in consegna e li guidò nel territorio che la 36ª controllava, e di questa Brigata divennero dei degni combattenti.
Una quindicina di partigiani rimase a Castelnuovo: alcuni di essi si trasformarono in infermieri e curarono i feriti, gli altri si diedero da fare per la ripresa dell’attività organizzativa e politico-militare.
ù I feriti vennero sistemati in una grotta a nord di Castelnuovo; due di questi erano stati colpiti alle gambe, il terzo (Gino Albertazzi, «Pompiere») portava conficcata nell’inguine una pallottola calibro 9 che gli causava lancinanti dolori e una grossa emorragia interna.
Un medico ebreo, Marino Finzi, rifugiatosi a Castelnuovo per sfuggire alle persecuzioni razziali, lo visitò accuratamente, informando i partigiani che per strapparlo alla morte bisognava operarlo entro 24 ore.
La drammatica circostanza diede corpo a uno degli episodi più belli della vicenda partigiana.
Il comando decise il trasporto a Bologna del ferito, non essendo possibile operarlo in loco.
Venne costruita una rudimentale barella. Gli studenti in medicina Luigi Lincei (Sganapino) e Gentilino Conti (detto Lenin) riassettarono i loro vestiti, si infilarono al braccio una fascia bianca contrassegnata da una croce rossa, si munirono di una lettera in lingua tedesca — uno dei feriti era un bolzanese che aveva disertato la Wehrmacht, battaglione «Bozen», per entrare nelle file della Resistenza — nella quale stava scritto che il ferito era un operaio della «Todt» vittima di un mitragliamento dal cielo e, aiutati da altri compagni d’arme, si portarono verso la strada della Futa e lì furono lasciati soli insieme al loro dolorante carico.
Il primo camion che fermarono era un «Tre-Ro» requisito dalla Wehrmacht e pilotato da un sottufficiale tedesco; costui, data una scorsa alla lettera, ordinò ai partigiani di salire sul cassone insieme al barellato e, senza dire una parola, li guidò a Bologna.
Giunti a San Ruffillo, alla periferia del capoluogo emiliano, il tedesco fermò il camion, fece scendere i suoi ospiti e li salutò amichevolmente. Ripartito il «Tre-Ro», una telefonata al Policlinico di Sant’Orsola fruttò l’arrivo sollecito di un’autolettiga.
Il ferito venne ricoverato clandestinamente, fu subito operato e se la cavò nel migliore dei modi, rimanendo nell’ospedale fino alla liberazione.
Sganapino e Lenin, che erano saliti sull’ambulanza e che avevano informato l’infermiere di scorta sulla «realtà» del caso, dormirono presso una famiglia fidata e all’alba del giorno seguente ripresero a piedi la via della montagna. A tarda notte giunsero al comando della «Pampurio» accolti festosamente.
La 62ª Brigata lentamente si riorganizzò, nuove forze affluirono anche in virtù dei bandi militari repubblichini.
L’armamento, con arditi colpi di mano, divenne via via più potente, tanto che nel luglio, verso la fine del mese, i circa duecento partigiani della Brigata disponevano di una trentina di armi automatiche, comprese due mitragliatrici leggere (tolti alcuni «Sten», posseduti da partigiani provenienti dalla «Stella Rossa» e inseriti nell’organico della 62ª e alcuni mitra «Beretta», le armi più efficienti della «Pampurio» erano di marca teutonica), di fucili e pistole relativamente abbondanti, di bombe a mano di ogni tipo e di una discreta quantità di munizioni. Più tardi, arriveranno anche i «Panzerfaust».
Nel contempo, la Brigata estese i suoi collegamenti.
Si può dire che tutte le famiglie dell’intero rettangolo, sia quelle dei centri abitati e sia quelle contadine (coltivatori diretti piccoli proprietari e mezzadri, qualche affittuario, in generale di povera e poverissima condizione sociale), hanno collaborato con la «Pampurio», ospitando reparti e compagnie nelle case coloniche, fornendo informatori, staffette e guide, spezzando il loro pane, affrontando gli stessi pericoli e subendo perdite dolorose per le feroci rappresaglie nazifasciste o per l’asprezza di taluni combattimenti.
Molti i giovani contadini che divennero veri e propri partigiani.
La composizione sociale della Brigata era la dimostrazione dell’alto livello raggiunto dall’unità popolare nella lotta contro i tedeschi e i fascisti.
Una larga rappresentanza operaia e contadina, i più, un buon numero di intellettuali (in prevalenza studenti universitari), elementi del ceto medio urbano e campagnolo, alcuni ufficiali del disciolto esercito regio, alcuni giovani provenienti da famiglie facoltose e perfino una, sia pure esigua, rappresentanza del cosiddetto ceto nobiliare i cui due componenti, dichiaratamente monarchici, seppero «adattarsi» ai disagi e ai rischi della vita partigiana al pari degli altri commilitoni.
Certo, non tutte lisce furono le questioni che una tale composizione sociale poneva, tanto più che la Brigata era una delle tante formazioni militari promosse dal partito comunista, le «Garibaldi», e in talune occasioni, rare, gli spigoli da smussare furono piuttosto acuti e pungenti, ma niente volse al tragico e la reciproca solidarietà rimase intatta.
Praticamente, nelle località in cui la presenza fisica della Brigata era più consistente che altrove, la direzione della «cosa pubblica» era affidata al comando della «Pampurio » e ai suoi incaricati: quelle zone, per molti mesi, furono libere di fatto, enucleate dall’insieme del territorio occupato dai tedeschi e amministrato per procura dai repubblichini di Salò, il cui fazioso potere si arrestava alle soglie della terra partigiana.
Indicativo al riguardo il seguente episodio, stralciato dal diario della Brigata:
«4 settembre 1944: piccole aliquote delle varie compagnie entrano nel paese di Sassoleone (frazione del comune di Casalfiumanese, n.dr.), a pochi chilometri dai presidi tedeschi della zona.
L’accoglienza della popolazione è stata inizialmente piuttosto incerta ma in seguito, dietro invito dei partigiani, la maggior parte di essa è scesa nelle strade fraternizzando con i nostri e offrendo cibi e bevande.
Gli elementi politici responsabili che facevano parte del gruppo dei partigiani hanno preso contatto con i patrioti e con i rappresentati delle classi lavoratrici ai quali hanno spiegato la situazione politica e militare, facendosi rilasciare a loro volta dati sulla situazione economica e sui bisogni del paese.
Per soddisfare le richieste della popolazione, nei giorni successivi, alcuni capi di bestiame venivano inviati a Sassoleone per essere macellati e distribuiti, sotto nostro controllo, agli operai e ai contadini poveri del paese.
Durante l’occupazione sono state affisse 50 copie di un proclama illustrante i motivi della lotta partigiana, e invitante la popolazione a collaborare con i patrioti.
Nell’avanzato pomeriggio il nostro distaccamento lasciava il paese fatto segno a dimostrazioni fraterne e di affetto da parte degli abitanti, i quali si sono prodigati in spontanee offerte di liquori, vino, medicinali e altre cose utili al comando di Brigata».
L’occupazione di Sassoleone avvenne nella tarda mattinata e per l’occasione i partigiani avevano indossato la classica divisa garibaldina: camicia rossa e pantaloncini blu, quasi si trattasse di una parata del tempo di pace.
Da quel giorno, Sassoleone divenne la capitale della libera terra partigiana dei Casoni di Romagna.
Sui muri del paese incominciarono a comparire le ordinanze della giunta democratica, insediata per volontà della Brigata e dei patrioti locali, e i proclami del comando partigiano.
Il commissario politico (termine ufficiale «commissario di guerra») della «Pampurio», Sergio, era stato incaricato di trattare, in collaborazione con i reggitori di Sassoleone, quelli che lui stesso chiamava scherzosamente gli «affari civili».
Poi il fronte si avvicinò rapidamente, i tedeschi si infittirono, fu necessario abbandonare le posizioni «civili» della Brigata per concentrare tutte le forze sul falsopiano.
Nella giornata del 24 settembre l’abitato di Sassoleone venne quasi completamente distrutto da una forsennata azione di rappresaglia dei tedeschi (reparti di linea e di SS).
Gli abitanti riuscirono in grande parte a fuggire e si rifugiarono nel territorio dei Casoni di Romagna, sotto la protezione dei partigiani e dei contadini; non tutti però: 23 furono catturati dai nazisti e massacrati e fra questi il parroco del paese.
La distruzione di Sassoleone venne compiuta da centinaia di colpi d’artiglieria (cannoni e mortai) e con l’esplosione di decine di mine.
Terminata l’azione di sterminio i tedeschi rivolsero la loro furia contro i casolari del vicinato e molte abitazioni contadine vennero bruciate.
Cacciata la popolazione, i tedeschi installarono fra le macerie del paese una batteria di «88» che però sparò solo pochi proiettili sulle linee della 5ª Armata statunitense, poiché varie squadriglie di cacciabombardieri alleati si avvicendarono poche ore dopo nel cielo di Sassoleone e, facendo tacere i cannoni tedeschi, completarono la rovina dell’abitato.
Solo tre settimane era durata la vita della piccola capitale della repubblica partigiana, indubbiamente il più intenso periodo della sua storia .
La guerriglia è punteggiata di infiniti episodi e, proprio perché tale, non risponde a schemi e a canoni bellici.
Dal diario della Brigata emerge l’efficacia della continua offensiva partigiana contro i nazifascisti.
Ecco alcune brevi annotazioni, assai significative (il diario, compilato giorno dopo giorno e infine sepolto entro una cassetta di ferro quando gli eventi bellici costrinsero la Brigata a cessare di essere tale, illustra scheletricamente ogni singolo episodio di rilievo):
«10 agosto 1944: sulla strada fra Piancaldoli e Sasso di San Zenobio una squadra attaccava due autocarri tedeschi con 9 uomini a bordo. Perdite del nemico 1 morto e 2 feriti accertati; distruzione degli autocarri e recupero di 1 fucile e di materiale bellico vario».
«22 agosto 1944: una nostra compagnia disarma un posto di guardia della milizia. Nel combattimento avvenuto 1 milite rimane ucciso e 2 militi vengono catturati. Recuperati: 1 fucile mitragliatore, 4 moschetti, 2 pistole, bombe a mano e materiale vario».
«26 agosto 1944: viene disarmato un colonnello dell’esercito repubblichino e vengono recuperate le seguenti armi: 1 moschetto, 2 pistole, 1 fucile da caccia e 6 bombe a mano».
Il colonnello Cenacchi, comandante del distretto militare repubblichino, allora trasferito, in sede di fortuna, alla Croce di Casalecchio di Reno, doveva essere giustiziato, ma per fortuite circostanze la squadra partigiana arrivò sul posto con alcune ore di ritardo sul preventivato, trovando nell’abitazione del colonnello solo i suoi parenti; oltre le armi, vennero sequestrati numerosi medicinali, preziosissimi per la poco fornita infermeria della Brigata.
«27 agosto 1944: durante la marcia di avvicinamento ad un obiettivo prestabilito la compagnia “Nino” cade in una imboscata, perdendo la guida, rimasta uccisa, e il commissario politico, rimasto prigioniero.
Sulla strada nazionale della Futa una squadra compie un’azione di sabotaggio contro un’autocolonna tedesca con spargimento di chiodi antipneumatici; il traffico è rimasto interrotto dalle ore 24 alle ore 6 del mattino successivo».
Il commissario politico della «Nino», Luciano Bracci (Toro), venne fucilato dai neri il 30 agosto 1944, dopo orrende torture, ai piedi del «muro di ristoro dei ribelli», nel luogo, cioè, dove oggi sorge il Sacrario dei caduti partigiani in piazza Nettuno, a Bologna.
«28 agosto 1944: in una località vicina a Pianoro una squadra disarma un tedesco e volge in fuga una sopraggiunta pattuglia tedesca a cavallo. Vengono recuperati esplosivi, bombe a mano e 1 “Mauser”. Sono state giustiziate due spie infiltratesi nelle file partigiane ma subito identificate per militi della polizia ausiliaria fascista».
«29 agosto 1944: una pattuglia nemica, capeggiata dal reggente del fascio di Loiano, e composta da sottufficiali e soldati tedeschi del comando “Feldgendarmerie” di Loiano, viene sorpresa, alle ore 8, nelle nostre linee.
La pattuglia viene presa sotto il fuoco delle nostre armi automatiche, quindi accerchiata, nonostante la violenta reazione. Il nemico lasciava sul terreno 2 morti; vengono catturati il reggente del fascio e un sergente tedesco. Vengono recuperati: 1 fucile “Mauser”, 2 pistole, 1 arma automatica, bombe a mano e molte munizioni».
La fitta boscaglia teatro del combattimento favorì la fuga dei superstiti della pattuglia i quali si portarono dietro le armi dei tedeschi rimasti sul terreno.
Probabilmente i tedeschi si erano mossi da Loiano per intraprendere una delle solite razzie di cose e di uomini, e certamente non pensavano di scontrarsi con un’agguerrita formazione partigiana.
Il fatto del 29 agosto ebbe un curioso strascico che vale la pena di ricordare. Il 30 agosto il comandante della gendarmeria tedesca di Loiano faceva affiggere in paese il seguente avviso:
«Il comando della gendarmeria tedesca non lavorerà in vantaggio della popolazione di Loiano e dintorni fino a quando il sottufficiale tedesco Aumueller non sarà ritornato dalla prigionia della Brigata Garibaldi». Firmato: Engeibrecher, maresciallo capo della gendarmeria di Loiano.
A questo proclama dava pronta risposta il comando della Brigata, facendo affiggere sui muri di Loiano dei foglietti battuti a macchina con la seguente scritta: «Il comando della Brigata Garibaldi “Camicie Rosse”, diffida gli abitanti di Loiano dal credere alle lusinghe della gendarmeria nazista, il cui interessamento può portare soltanto lutti e stragi. Il sottufficiale Aumueller di cui si chiede la restituzione combatte volontariamente nelle nostre file contro tedeschi e fascisti, peste della umanità». Firmato: il comando.
Quel «combatte volontariamente » era, naturalmente, un’assai vaga induzione in quelle ore tanto vicine al combattimento, ma di lì a qualche giorno il sergente Hans Aumueller, nato a Berlino, diede una tangibile prova della «volontà» tanto affrettatamente attribuitagli.
Il partigiano Giancarlo Lelli (Pampurio), venne catturato dai gendarmi nazi di Loiano; ci fu, nell’occasione, un nuovo scambio di «note» tra il comando della Brigata e quello della «Feldgendarmerie», proponente, con iniziativa di parte tedesca, lo scambio dei prigionieri.
Allorché Aumueller venne avvisato che doveva prepararsi a ritornare al suo reparto egli oppose un netto e inequivocabile rifiuto, dichiarando perentoriamente di voler rimanere fra i partigiani. Fortunatamente Pampurio riuscì con un’ardita fuga a sganciarsi dai tedeschi e la faccenda ebbe un lieto fine.
«31 agosto 1944: ingenti forze tedesche effettuano un rastrellamento nella zona di Castelnuovo e dintorni. Avvisati in precedenza dagli informatori, gli uomini della Brigata hanno effettuato un rapido e ordinato spostamento».
Abbandonato il territorio di Castelnuovo la «Pampurio» si trasferì, marciando di notte per alcune ore, nel falsopiano denominato Casoni di Romagna. Precedute dai «furieri d’alloggiamento», le compagnie trovarono efficienti sistemazioni e la lotta ai nazifascisti ricominciò senza indugi.
«1 settembre 1944: vengono giustiziati due partigiani perché rei confessi di spionaggio a favore dei tedeschi e dei fascisti e causa diretta della morte di 6 partigiani e della cattura di altri 6».
«3 settembre 1944: a Badolo è stato giustiziato un sottocapo della “X Mas”, spia e reo di aver svolto attività a danno dei patrioti».
«5 settembre 1944: catturata e giustiziata una spia agli ordini del servizio di controspionaggio fascista di Bologna».
«8 settembre 1944: una squadra attacca e disarma una pattuglia tedesca a cavallo. Recupero: varie bombe a mano, 2 pistole, 3 fucili e molte munizioni.
Una squadra attacca macchine tedesche sulla strada nazionale della Futa. Una macchina completamente distrutta. Reazione nemica prontamente domata. Da informazioni risultano diversi morti tedeschi. Una nostra pattuglia rileva un deposito di munizioni tedesche e le asporta.
Vengono catturate due spie al servizio dei fascisti».
Non del tutto tragico l’episodio della pattuglia tedesca disarmata l’8 settembre. Ecco come si svolse il fatto.
A Monte delle Formiche, nel comune di Pianoro, proprio sulla cima si alza un piccolo santuario senza pretese architettoniche e lì, quando cade l’8 settembre, molta popolazione dei dintorni si dà convegno dando vita ad una semplice sagra religiosa, densa di funzioni propiziatorie, di processioni e di frugali e sani festini gastronomici.
La sagra in onore della Madonna delle Formiche ebbe luogo anche nel 1944 nonostante la guerra e la guerriglia che in quella zona imperversavano, e il parroco di Monte, ottimo sacerdote, ebbe la bella idea d’invitare un gruppo di partigiani della Brigata, con i quali era in fraterni rapporti.
Così avvenne che il comandante Luciano Proni (Kid) ed altri sei partigiani del comando di Brigata, fra i quali il sottoscritto, si avviarono di buon mattino verso il santuario. Raggiunta la punta furono accolti molto cordialmente dal degno prete e dai convenuti alla festa, assai numerosi e vestiti con gli abiti migliori.
La guerra era nell’aria e segnava tutti quei visi, ma regnava comunque una certa allegria. A mezzogiorno tre partigiani, fra cui il comandante, pranzarono in canonica; gli altri partigiani furono ospitati presso alcune famiglie: il sole di quel caldissimo settembre propiziò il prolungarsi dei modesti conviti nella frescura delle case e le conversazioni, naturalmente, seguirono il filo rosso di quella situazione eccezionale.
Erano da poco scoccate le tre del pomeriggio quando i partigiani e i loro ospiti uscirono all’aria aperta, mischiandosi con la gente, piuttosto folta in quel momento e in attesa della solenne processione con l’immagine della Madonna delle Formiche.
I partigiani erano armati e quegli ordigni e quelle divise assai disparate (spesso abbandonate all’estro bizzarro dei partigiani) producevano un forte contrasto con gli abiti scuri e severi dei contadini. Si discuteva del più e del meno allorché venne il fatto.
Con lo stesso impeto della folata improvvisa che dirada e disperde un banco di nebbia, qualcosa spinse piuttosto frettolosamente dentro le case e dentro il santuario la maggior parte dei convenuti e i partigiani si ritrovarono quasi soli nello spiazzo di Monte, assolato e silenzioso.
Tre tedeschi a cavallo erano comparsi all’improvviso uscendo da un sentiero; probabilmente quella loro visita al Monte non era malintenzionata, una scampagnata forse. Inoltre la veloce sparizione dei contadini li aveva notevolmente sconcertati.
Assai facile, quindi, per i partigiani l’accerchiamento e la cattura dei malcapitati militi. Sbalorditi e spauriti i tedeschi scesero dai cavalli, gettarono nella polvere i lunghi «Mauser» e le pistole, rimasero contro un muro con le mani alzate e i volti bianchi.
Quasi una burla, una faccenda da riderci sopra, e i partigiani si sentirono allegri e ben disposti verso quei nemici caduti da minchioni nella trappola della sagra. Una severissima disposizione del comando di Brigata vietava categoricamente ai partigiani «se non per causa di forza maggiore» lo scontro a fuoco e i colpi di mano ai danni dell’invasore all’interno e nei pressi dei centri abitati, allo scopo di evitare le possibili rappresaglie dei nazifascisti.
Così, applicando tali regole, Kid decise di restituire la libertà ai prigionieri, i quali furono però costretti a spogliarsi e a ritornare sui loro passi scalzi e in mutande: qualche calcio nel sedere e le risate dei partigiani accompagnarono per un breve tratto la fuga precipitosa dei tedeschi, poi costoro scomparvero dalla cima di Monte delle Formiche.
Avvertiti dai partigiani i contadini uscirono dai nascondigli e rioccuparono lo spiazzo; in parecchi fecero circolo attorno ai cavalloni tolti ai nazi, ammirandone la forte corporatura e i lucidi finimenti. Tutto sembrava indicare il rientro nella normalità, ma la paura, di lì a poco, riprese il sopravvento.
Dapprima vi fu la frase di un vecchio: «Forse i tedeschi ritorneranno», raccolta quasi per caso da un gruppo di donne, infine nel giro di pochi minuti, quella frase corse su tutte le bocche così trasformata: «i tedeschi ritorneranno in forze e vorranno vendicarsi».
In breve, il panico dilagò e i partigiani rimasero ancora una volta pressoché soli: i convenuti alla sagra fuggirono e lunghe file di uomini e di donne ripercorsero i sentieri che portavano al Monte, poi svolte e boscaglie li inghiottirono.
Desolato, il buon parroco vide sfumare tutta la sua fatica di organizzatore della sagra (i cannoni della 5ª armata USA qualche settimana dopo spianeranno addirittura il vecchio santuario): salutò mestamente i partigiani e si ritirò nel buio silenzio della chiesa. La festa dell’8 settembre 1944 era finita.
I partigiani rimasero sullo spiazzo fino all’imbrunire poi abbandonarono Monte delle Formiche e raggiunsero i loro alloggiamenti, senza incidenti di sorta.
I tre cavalli vennero assegnati alle compagnie della Brigata più distanti come base da Ca’ dei Gatti, sede del comando.
Si seppe, qualche giorno dopo, che i tedeschi disarmati appartenevano ad un piccolo distaccamento dell’antiaerea: quando i loro commilitoni li videro comparire e seppero dell’umiliante disavventura sprangarono le porte della casa in cui si erano accasermati e vegliarono tutta la notte temendo un attacco partigiano.
I pochi chilometri che la separavano da Bologna, la facilità delle comunicazioni permessa dalla fitta rete stradale, la natura stessa del terreno, i numerosi centri abitati e la grande massa degli sfollati, rendevano molto agevole l’invio nella zona partigiana di spie fasciste e naziste variamente camuffate; i repubblichini, addirittura, riuscirono a creare un piccolo distaccamento di spie, in veste partigiana, nei pressi di Monte Adone: il pericoloso gruppo venne scoperto e annientato solo dopo alcune settimane dal suo insediamento.
A volte le spie riuscivano a infiltrarsi nelle compagnie partigiane, creando situazioni estremamente drammatiche, spesso concluse tragicamente come è possibile constatare dall’annotazione qui riportata e relativa al 1 settembre. Le spie dovevano essere eliminate ad ogni costo:
«9 settembre 1944: vengono giustiziate le spie catturate il giorno precedente. Una nostra pattuglia cattura e passa per le armi due militi delle brigate nere».
«10 settembre 1944: una nostra squadra attacca le macchine in transito sulla via Montanara (vallata del Sillaro, n.d.r.). Viene distrutto un autobus carico di soldati tedeschi; il nemico ha subito forti perdite in morti e feriti».
«11 settembre 1944: una nostra squadra attacca sulla via Montanara un grosso camion tedesco, rendendolo inefficiente».
Il grosso delle forze combattenti della 62ª Brigata si era saldamente ancorato sul falsopiano dei Casoni di Romagna, assai più vasto e sicuro della zona di Castelnuovo di Bisano.
Il falsopiano domina le vallate dell’Idice, del Santerno e del Sillaro.
A Ca’ dei Gatti aveva i suoi «uffici» il comando di Brigata, le altre compagnie stabilirono le loro basi in decrepiti casolari abitati dai contadini dei Casoni; taluni distaccamenti distavano anche 5-6 chilometri dalla sede del comando.
I Casoni di Romagna furono teatro di molte battaglie e i tedeschi — il fronte si avvicinava a grandi passi — non riuscirono a trasformare il falsopiano in zona fortificata proprio per la strenua opposizione della Resistenza.
L’incombente presenza del fronte, in rapido movimento avanzante, in pochi giorni trasformò i Casoni di Romagna da zona di retrovia in terra di prima linea, cosicché le truppe tedesche diventarono via via sempre più numerose e agguerrite.
Spesso, sulla stessa località che vedeva lo scontro fra partigiani e nazisti, piovevano le granate americane, mentre i cacciabombardieri alleati spezzonavano e mitragliavano ogni movimento di uomini.
Sui tormentati Casoni di Romagna e nei territori limitrofi l’asprezza e la durezza della lotta ingaggiata dalla Brigata subirono un crescendo galoppante. Ecco alcune vicende significative:
«12 settembre 1944: una nostra squadra attacca e disarma una pattuglia di cavalleria tedesca sulla via Montanara. Recupero: 2 fucili, munizioni, bombe a mano e materiale vario. Durante la stessa azione viene distrutto un tratto della linea telefonica tedesca».
«14 settembre 1944: una squadra attacca per due notti consecutive il traffico militare sulla strada della Futa. Risultato: una camionetta carica di truppa mitragliata e successivamente precipitata in un burrone; un’altra macchina mitragliata ripetutamente. Morti e feriti tedeschi in numero non accertato».
«16 settembre 1944: un gruppo di uomini della Brigata, in camicia rossa, occupa per tutto il pomeriggio il paese di Villa di Sassonero (frazione del comune di Monterenzio, n.d.r.); rimuove una lapide dedicata ai fascisti morti in Spagna murata nella chiesa parrocchiale, prende contatto con gli elementi antifascisti attivi del paese e fissa la base per una collaborazione fattiva tra le forze patriottiche e la popolazione.
Dispone la soluzione di problemi politici, amministrativi e annonari del paese sulla base della democrazia progressista. I motivi della lotta partigiana e della lotta politica di massa sono stati illustrati in un manifesto affisso in numerose copie sui muri del paese.
Una squadra assalta il presidio tedesco di Bisano intimando la resa. Avendo i tedeschi risposto col fuoco si iniziava una sparatoria a breve distanza.
Nel frattempo, gli uomini della Brigata, comandati negli appostamenti per proteggere l’azione, aprivano il fuoco su postazioni di mitragliere tedesche dando così modo alla squadra partigiana di ritirarsi sulle posizioni di partenza. Il combattimento a distanza continuava su una linea di almeno 2 chilometri, essendo entrato in azione tutto il dispositivo militare tedesco della zona.
Rispondendo al fuoco accanito di 6 mitragliere pesanti tedesche e di numerose armi automatiche leggere, i nostri si sganciavano senza aver subito perdite. Da parte tedesca tutti gli uomini che sono stati sorpresi nel presidio sono rimasti morti o feriti».
«21 settembre 1944: una squadra cattura e disarma una pattuglia di tre tedeschi, recuperando 3 “Mauser”, tre pistole, munizioni e materiale vario. Catturato e giustiziato un milite delle brigate nere».
Leggendo ancora il diario di guerra della 62ª Brigata ci si imbatte spesso nella descrizione di azioni che si sono concluse con il semplice disarmo del nemico catturato.
Perché quei nazisti non venivano giustiziati come imponeva la terribile legge della guerriglia? Perché venivano solamente privati delle armi e rinviati ai rispettivi reparti? L’abbiamo già sottolineato raccontando l’episodio di Monte delle Formiche: si volevano evitare rappresaglie contro la popolazione.
Il comando della Brigata aveva severamente ordinato che nei pressi dei centri abitati o all’interno degli stessi bisognava evitare gli scontri a fuoco, ovviamente nella misura del possibile, procedendo al semplice disarmo dei soldati nemici catturati.
E’ indubbio che il timore, assai fondato, di feroci ritorsioni ai danni di gente innocente legava le mani dei partigiani, tanto che si è dato il caso di facilissime possibilità di annientamento di gruppi di nemici risolte con un nulla di fatto proprio perché quelle occasioni tanto favorevoli si erano verificate all’interno delle «zone aperte» indicate nella regola imposta dal comando di Brigata.
E le regole della lotta partigiana bisognava rispettarle e chi le violava subiva senza fallo la relativa punizione.
Oramai, in quel settembre veramente tempestoso — tutte le Brigate della Divisione «Lupo» erano duramente impegnate — ogni ora, si può ben dire, accendeva scontri e scaramucce, agguati e controagguati:
«23 settembre 1944: una formazione della Brigata attacca sulla via Montanara una macchina con 15 tedeschi a bordo. Dopo violento scontro rimanevano uccisi 2 ufficiali e 1 soldato tedeschi e diversi nemici rimanevano feriti. Cessato il fuoco la formazione provvedeva al recupero di: 1 fucile mitragliatore, 6 fucili, 1 pistola da segnalazione, 1 cassa di munizioni calibro 9, 2 casse di bombe a mano, 1 radio trasmittente e ricevente, 4 nastri per mitragliatrice, 2 casse di munizioni per fucili, 3 mine, 14 spingarde anticarro, 8 bombarde anticarro, esplosivi vari, acidi incendiari e materiale di casermaggio. Venivano rinvenuti documenti di eccezionale importanza. I nemici superstiti si sono dileguati nella boscaglia. Il camion veniva distrutto».
«24 settembre 1944: una squadra attacca una pattuglia tedesca che tentava di asportare del bestiame dalle stalle contadine. Nello scontro rimanevano uccisi 1 ufficiale e 1 soldato tedeschi. Recupero del bestiame da parte dei contadini, da parte nostra si recuperava: 1 fucile, 1 pistola, 1 pistola lanciarazzi e 1 bomba a mano».
«25 settembre 1944: due motociclisti tedeschi avvicinatisi ad una base di compagnia venivano attaccati dalle scolte ma a causa della forte nebbia riuscivano ad eclissarsi nel bosco abbandonando la motocicletta nelle nostre mani.
Una squadra munita di pistole lanciarazzi si addentra nelle linee tedesche e lancia razzi di colore diverso allo scopo di creare confusione tra i diversi reparti di linea».
«27-28 settembre 1944: durante la notte del 26-27 un forte reparto tedesco occupava un edificio a poche centinaia di metri da Ca’ dei Gatti.
Alle prime ore del mattino si iniziava uno scambio di fucilate fra una nostra compagnia e il reparto tedesco. Successivamente la compagnia Comando, con alla testa il comandante Kid, muoveva all’attacco della posizione nemica.
La compagnia Comando veniva presa sotto il fuoco delle armi automatiche e dei mortai tedeschi, ciò causava il ferimento del comandante (il polmone sinistro trapassato da una pallottola, n.d.r.) e il fallimento dell’attacco.
I tedeschi hanno continuato per tutta la mattinata a battere con il fuoco dei mortai le nostre posizioni. Per tutto il pomeriggio si sono succeduti gli attacchi di pattuglie tedesche alle nostre posizioni periferiche, attacchi che venivano facilmente respinti.
I tedeschi lasciavano sul terreno 1 ufficiale, 2 sottufficiali e 6 soldati, abbandonando nelle nostre mani tre motomezzi e molte armi. Nella serata si iniziava un violento fuoco di artiglieria contro la posizione tenuta da un nostro reparto: il fuoco durava tutta la notte.
Nella tarda serata un pattuglione tedesco si incuneava nelle nostre linee ma veniva rapidamente respinto. Verso la mezzanotte pattuglie tedesche, favorite dalla folta nebbia, attaccavano di sorpresa la base di una compagnia della 36ª Brigata Garibaldi, temporaneamente aggregata a noi.
Dopo un violento corpo a corpo il nemico veniva respinto, e abbandonava armi e 1 mortaio. Subito dopo nuovi rinforzi tedeschi riattaccavano la stessa compagnia: aveva luogo così, sotto una violenta pioggia, un asprissimo combattimento, con l’intervento di artiglieria e mortai tedeschi, che si protraeva fino alle ore 9, allorquando la compagnia della 36ª benché circondata, riusciva a sganciarsi a prezzo di perdite elevate e dopo aver inflitto al nemico perdite gravissime.
Sul luogo del duro combattimento (Ca’ di Guzzo, n.d.r.) veniva inviato anche un piccolo reparto della 62ª che non riuscì, però, a raggiungere il casolare accerchiato. Verso le ore 14 il nemico, sempre favorito dalla nebbia, riusciva a circondare con forze preponderanti l’intera Brigata.
Immediatamente veniva diramato l’ordine di ritirata, che veniva effettuata dalle compagnie in buon ordine e senza incidenti, nonostante l’incontro lungo il percorso di molte pattuglie tedesche.
Durante i due giorni di combattimento la 62ª oltre a numerosi feriti, ha avuto due caduti e una quindicina di dispersi. Nel corso del ripiegamento tutti i feriti, sia della 36ª che della 62ª sono stati portati in salvo».
Il cielo coperto, impedendo l’intervento dell’aviazione alleata, indubbiamente favorì i tedeschi, i quali poterono raggrupparsi in forze sui Casoni di Romagna e dintorni, su un terreno che offriva ben poche possibilità di riparo dall’offesa aerea.
La Brigata, attraversando una striscia di bosco, ripiegò su Ca’ del Vento.
Alcuni dei partigiani dispersi rientrarono in Brigata, altri, caduti prigionieri, vennero costretti al trasporto delle munizioni per alcuni giorni e poi furono assassinati dai nazisti.
Nella zona di Ca’ del Vento, a nord del torrente Siliaro, opera la 66ª Brigata Garibaldi.
Dopo dieci chilometri di marcia, sotto una pioggia torrenziale, la Brigata raggiunge l’obiettivo dei ripiegamento. Stanchi e con i nervi lacerati dalla tensione nata dai duri combattimenti, i partigiani della «Pampurio» vengono fraternamente accolti dagli uomini della 66ª Brigata.
Senza indugi viene decisa la fusione delle due formazioni: nasce così il Gruppo Brigate di Montagna (GBM). Il comando unificato è così composto: Kid (Luciano Proni) e Jacopo (Aldo Cucchi) per la 62ª, Orso (Enrico Paollucci), Polino (Eros Poggi) e Garian (Carlo Zanotti) per la 66ª.
Circa quattrocento i partigiani. Critica la situazione: la zona è piena di tedeschi ed è sottoposta a violenti bombardamenti.
Intanto giunge la buona notizia: le avanguardie corazzate della Divisione «Flower» ( composta di veterani della 5ª Armata USA), hanno occupato i Casoni di Romagna, prezioso baluardo naturale che i tedeschi non hanno potuto fortificare.
La zona tenuta dal Gruppo Brigate di Montagna parte da Ronco dal Britti, una specie di bastione a nord del Sillaro, e si spinge fino al Monte delle Formiche, toccando i centri abitati di Castelvecchio, Montecerere e San Clemente.
Il comando unificato, utilizzando la stazione radio catturata sulla via Montanara, attua un collegamento di fortuna con gli alleati, proponendo un piano operativo che contiene l’impegno di tenere al limite delle possibilità militari del Gruppo Brigate di Montagna la linea Castelvecchio-Monterenzio-Monte delle Formiche, ostacolando i propositi tedeschi che tendono a creare posti fortificati di rilevante importanza tattica; dal canto loro gli alleati promettono aiuti al Gruppo Brigate di Montagna, mediante aviolanci di armi, munizioni e viveri e, se diventa possibile, facendo intervenire l’aviazione e speciali pattuglie corazzate.
Per facilitare l’attuazione di questo piano, tre aviatori (il maggiore Bezencenet e il tenente Nunneley della RAF, il tenente Campbell dell’arma aerea SAAF, sud-africana), abbattuti dalla contraerea germanica e salvati dai partigiani, accompagnati dall’americano Abbort, ufficiale di collegamento, e scortati da una pattuglia del Gruppo Brigate Montagna, vengono guidati attraverso le linee tedesche e passano felicemente nella zona liberata.
Gli aviatori consegnano agli alleati una preziosa carta topografica, catturata dai partigiani, nella quale sono segnate le linee di ripiegamento e di successiva resistenza decise dai comandi Wehrmacht (mezzi corazzati, artiglierie e fanterie) operanti in loco.
L’attesa dei partigiani è presto delusa: nelle ore e nei giorni che seguiranno non vi saranno aviolanci né aiuti di altro genere. Gli uomini del Gruppo Brigate di Montagna, fra i quali incomincia un certo sbandamento, dovranno sbrigarsela da soli e buon per loro se non verranno colpiti dalle «12,7» dei cacciabombardieri alleati sempre più folti nel cielo sgomberato dalle nubi.
Davanti a Sant’Anna di Monterenzio, base-infermeria del Gruppo Brigate di Montagna, esplode il primo combattimento importante dell’ottobre.
«2 ottobre 1944: una pattuglia tedesca s’infiltra nel territorio del Gruppo Brigate di Montagna. Viene immediatamente attaccata. I tedeschi perdono tre uomini uccisi in combattimento, oltre ad altri probabili feriti. I partigiani Pampurio, Tarzan [Salerno] e Nino [Campomori] sono stati colpiti a morte».
Duro il colpo.
Come risulta dalla carta topografica trovata addosso al maresciallo che comandava la pattuglia, i tedeschi, parte appiedati e parte a bordo di una moto cingolata, dovevano collegare telefonicamente la sede del comando tedesco di Monte Armato con la quota di Ronco dei Britti.
Grosso il bottino e grave la sconfitta dei nazi, ma i tre partigiani feriti mortalmente sono fra i più bravi e stimati. La situazione si fa ogni giorno che passa più seria e insostenibile.
Non tutti i partigiani, diversi dei quali logorati da molti mesi di milizia incessante, se la sentono di continuare, e il comando unificato prende una grave decisione: riunisce tutti i combattenti e invita ognuno ad esporre francamente i propri pensieri.
La riunione, che si svolge in un bosco sul quale, ogni tanto, piove un proiettile alleato, termina con la seguente decisione: chi vuole scenda verso la pianura, abbandoni le armi e «amici come prima».
Il grosso del Gruppo Brigate di Montagna decide di rimanere, quelli che se ne vanno non sono degli sconfitti perché la maggioranza continuerà la lotta in altre formazioni della Resistenza.
Le armi che lasciano vengono disputate dai rimasti, si continua: «4 ottobre 1944: infiltrazione nel territorio del GBM di due colonne someggiate tedesche, composte di un totale di 15 muli con una quindicina di soldati di scorta. Diverse squadre del GBM attaccano prontamente. Dopo una modesta reazione i tedeschi superstiti si davano alla fuga, abbandonando le armi, i muli e lasciando sul terreno 9 uomini uccisi.
Recupero: abbondanti munizioni da mortaio, 6 casse di munizioni per fucile Mauser, 2 casse di bombe a mano, 1 radio trasmittente e ricevente, numerose armi e materiale vario. I muli rimasti indenni vengono assegnati alle compagnie. Una pattuglia di 5 tedeschi viene avvistata da una nostra squadra. Attaccata, tutti i tedeschi vengono uccisi».
Il diario di guerra termina illustrando un’azione bellica svoltasi il 6 ottobre. Oramai tutta la zona è investita dal fronte, sparano i cannoni della 5ª Armata, le armi tedesche e quelle partigiane.
Il comando unificato esamina la situazione e vista la impossibilità di poter ancora operare entro lo schieramento tedesco decide di non attendere in zona gli alleati, di dividere le compagnie in piccoli gruppi e di inviare i suddetti verso la pianura, per continuare la lotta appoggiandosi ai GAP e alle SAP, pur mantenendo, come Gruppo Brigate di Montagna, un certo collegamento.
Il 16 ottobre, a Villa Gandino (Ozzano dell’Emilia), avviene il contatto con il delegato del CUMER, Sante Vincenzi (Mario), il quale rende noto che il Gruppo Brigate di Montagna si deve concentrare nelle adiacenze di Castenaso, in vista della successiva marcia su Bologna.
Ancora si presume imminente la liberazione della città da parte degli alleati.
Un fortissimo attacco in forze dei tedeschi spezza in due il Gruppo Brigate di Montagna, tagliando la strada del ripiegamento in pianura ad una parte della compagnia Comando della 62ª e a gruppi di partigiani delle altre compagnie.
I partigiani che rimangono ingabbiati decidono di attraversare le linee dei fronte, e diremo dopo della loro avventura. Gli altri, grande parte della 62ª Brigata e quasi tutta la 66ª Brigata, guidati da Ruggero (Ruggero Montagnani) e da Sfilatino (Medardo Bottonelli) iniziano la marcia che li porterà prima ad Ozzano dell’Emilia e poi a Castenaso.
Il ripiegamento si svolge in buon ordine, benché di difficilissima attuazione. Purtroppo, il 18 ottobre, nei pressi di Vigorso (frazione del comune di Budrio), centinaia di tedeschi e di militi delle brigate nere accerchieranno un gruppo di case momentaneamente occupate dagli uomini scesi dalla montagna: si svilupperà un furioso combattimento nel corso del quale troveranno la morte otto partigiani, mentre i superstiti si guadagneranno la salvezza con una disperata sortita.
In seguito, non verificandosi l’avanzata su Bologna degli alleati, i partigiani del GBM si inseriranno nelle file dei GAP e delle SAP bolognesi, partecipando attivamente a numerose battaglie, come quella di porta Lame del 7 novembre 1944, subendo perdite in morti e feriti, riuscendo ad affrontare anche un tipo di lotta partigiana ad essi estraneo.
Con un gruppo di partigiani della compagnia comando della 62ª Brigata mi trovavo, il 15 ottobre, nel rustico di Acquabona: sotto di noi il torrente Idice e la carrozzabile che lo costeggia, a pochi chilometri l’abitato di Monterenzio.
A un tratto il partigiano di scolta dà l’allarme: dalla Valle dell’Idice sta salendo una lunga colonna di tedeschi. Usciamo dal rustico e ci nascondiamo nel folto della macchia che copre un leggero pendio a sinistra di Acquabona, in fondo c’è il rio che dà il nome alla casa.
Immobili, ascoltiamo il transito dei nazi, una lenta marcia fitta di passi: sono molti, forse un battaglione che va in linea. Al di là dei tedeschi c’è il grosso del Gruppo Brigate di Montagna dal quale siamo irrimediabilmente separati.
Un secco ordine ferma, sopra di noi, un gruppetto di nemici e dirige il fuoco delle loro armi automatiche contro la macchia; sparano per alcuni minuti, ma i proiettili non ci toccano perché siamo appiattiti sul terreno.
Poi i nazi se ne vanno e ritorna il silenzio. Ci spostiamo e a cinquanta metri troviamo una specie di grotta: dentro ci stiamo tutti. Uno di noi risale il pendio per dare un’occhiata e ci porta la poco lieta notizia: i tedeschi sono dappertutto, anche ad Acquabona.
Non c’è alcun dubbio, il fronte ha investito Ca’ del Vento. Con la sera piovono le granate americane, ad ogni boato sembra che la grotta stia per crollare, ma tiene.
Stabiliamo i turni di guardia. In quel buco ci stipiamo in una quindicina, ci sono anche due tedeschi, il sergente Hans Aumueller (quello di Loiano) e un giovane di Monaco che noi chiamiamo Franz.
A notte inoltrata udiamo molte voci tedesche: sul pendio che ci fronteggia i nazi hanno piazzato una batteria leggera e mezz’ora dopo incominciano a sparare. E gli americani rispondono, cento granate per ogni colpo del nemico.
La batteria dei nazi spara tutta la notte, poi tace; con l’alba non udiamo più le voci tedesche: o sono tutti morti o se ne sono andati.
Un fuoco di fucileria e di mitraglie ci dice che i nazi hanno fatto un altro passo indietro e che sopra di noi c’è la primissima linea del fronte.
Non ci possiamo muovere ma dobbiamo mangiare e bere. Fissiamo dei turni di vettovagliamento. Bisogna uscire dalla grotta, percorrere alcune centinaia di metri, entrare in un castagneto e raccogliere i frutti legnosi.
I primi due partigiani rientrano dopo un’ora con molte castagne e con un secchio colmo d’acqua, rinvenuto accanto alla sorgente.
Così, per oltre tre giorni, ci nutriamo di castagne, dure e indigeste. Il quarto giorno manda la prima luce sopra un terreno disfatto.
Non beviamo da 48 ore perché la sorgente è stata colpita da una granata e distrutta. Bruciori allo stomaco e infiammazioni alle gengive tormentano tutti.
La quarta alba, però, è stranamente silenziosa. Tocca a Ezio Rambaldi (Tempesta) e a me il turno di ronda. Guardinghi usciamo dalla macchia: i tedeschi sono spariti.
Ci avviamo verso il rustico di Acquabona. Sparsi lungo il sentiero vediamo molti barattoli e scatoline colorate: «Corned Beef», «Camel» e «Lucky Strike». Finalmente!
Durante la notte le truppe americane hanno scavalcato Rio Acquabona. La prima linea si è spostata di un migliaio di metri, cade ancora, qua e là, qualche proiettile tedesco, ma il più è passato. Corriamo dai nostri e in pochi minuti ci riuniamo sull’aia di Acquabona, con le nostre armi e i nostri fazzoletti rossi.
Siamo pallidi, sporchi e barbuti, pensiamo che i nostri nomi di battaglia hanno già terminata la loro funzione: «Caporale», «Uragano» (Armando Zanetti), «Buli» (Oreste Ronzani), «Fulmine» e «Gnocca» (Dino e Marino Bacchelli), «Mercurio» (Oriano Accorsi), «Linin» (Guerrino Gruppi), «Max» (Massimiliano Martelli), «Tito» e «Ivan» (Medardo e Bruno Rubbi), «Cirulén» (Luigi Mattei), «Gesùcristo» (dott. Raffaele Oppi), «Boby» (Bruno Veronesi), «Pippo» (Ernesto Morelli), «Bax» (Rino Coriambi), «Settembre» (Donano Facchini), «Gino» (Libero Romagnoli), «Walter» (Walter Beghelli), «Pancetta» (Luciano Gamberini), «Kitty» (Renato Montuschi), ecc.
I contadini c’informano che uno dei nostri, catturato dai tedeschi, giace morto nel bosco dei castagni. E’ Timocenco (Angelo Comuni), l’ultimo di un lungo elenco.
In una casetta poco distante da Acquabona si è radunato un gruppo di soldati della 5ª Armata. Ci rechiamo da loro e ci presentiamo. Ci accolgono bene e ci donano delle scatolette, della cioccolata e delle sigarette.
Un graduato, italo-americano, afferma che per raggiungere le retrovie bisogna aspettare l’oscurità. Con le prime ore della sera giunge una salmeria addetta al rifornimento degli avamposti; i muli sono scortati da soldati italiani, le «giubbe verdi».
Scaricati viveri e munizioni la salmeria ci prende in consegna. L’italo-americano ci offre la sua compagnia. In fila indiana ci mettiamo in cammino. Le pattuglie di punta della Divisione «Flower» svolgevano, avanzando, un rotolo di fettuccia bianca: seguendo le provvidenziali strisce di tela ripercorriamo i loro passi allontanandoci dalla prima linea.
Armi pronte, per fronteggiare eventuali infiltrazioni di pattuglie naziste, due ore di cammino e tocchiamo la carrozzabile dell’Idice.
Sempre in fila indiana, cercando di non farci travolgere dagli automezzi con la stella bianca che a centinaia vanno e vengono dal fronte, camminiamo sulla strada e oltrepassiamo l’abitato di Monterenzio, raso al suolo.
Vicino a Fiumetto ci fermiamo. Il graduato parla con un ufficiale e questi acconsente di mettere a nostra disposizione un camion. Mentre saliamo sul cassone vediamo uscire da una casa fatiscente molti tedeschi: a calci nel sedere gli americani li fanno salire su due camions.
Appena pronti, l’ibrida colonna si muove. Varchiamo il ponte sull’Idice, salutati da alcune granate tedesche che esplodono sul greto, ci troviamo in pochi minuti a Bisano.
Qui ci fanno scendere. I nazi prigionieri li rinchiudono in uno stanzone, per noi scelgono un capannone in buone condizioni, ci regalano un mucchio di scatolette e ci augurano la buonanotte.
Il mattino seguente siamo ricevuti da un colonnello italo-americano, un tipo gioviale che ricopre la carica di governatore militare. L’ufficiale, molto amichevolmente, ci interroga a lungo, vuole sapere dei nostri combattimenti, chiede a uno stenografo di prendere degli appunti e conclude il colloquio dicendoci che le nostre dichiarazioni saranno inserite nel diario di guerra della 5ª Armata. Qualche soldato americano, intanto, si diverte a toccare i nostri fazzoletti rossi.
Siamo da poco tempo rientrati nel nostro alloggio quando un ufficiale americano ci raggiunge e c’invita a consegnare le armi: «A voi non servono più... le paracaduteremo nel nord».
Diamo le armi per nulla convinti della sincerità di quella frase: con tutte le armi che possiedono hanno proprio bisogno di questi nostri vecchi ruderi? Siamo amareggiati, ma la gioia della libertà soffoca per il momento ogni altra riflessione.
Ci sono i giornali che giungono da Firenze, ci sono i partigiani della 36ª Brigata, i quali hanno varcato le linee, combattendo, prima di noi, da salutare. Il primo a venirci incontro é Guerrino (Guerrino De Giovanni), nominato sindaco di Monterenzio su proposta dei partigiani della 36ª e del CLN locale.
È uno dei superstiti della battaglia di Ca’ di Guzzo. Parliamo e parliamo.
Trascorse così quel giorno per noi tanto nuovo ed esaltante. Ma vi fu anche una nota molto dolorosa: gli americani ci dissero che i due tedeschi-partigiani dovevano considerarli come prigionieri di guerra.
Respinsero le nostre proposte (volevamo tenerli con noi fino alla fine del conflitto) e li misero insieme agli altri prigionieri nazi. Molto penoso quel distacco forzato, ci salutammo con le lacrime agli occhi.
Il CUMER, in un volantino che porta la data del 20 novembre 1944, comunicò quanto segue: «Reparti delle Brigate Garibaldi: 170ª, 36ª, 62ª, 63ª e 66ª; la Brigata “Matteotti”, la Brigata “Giustizia e Libertà”, unitamente ad altre tre formazioni della Divisione garibaldina “Modena”, eseguendo un nostro ordine, dopo aver sostenuto duri combattimenti, infliggendo gravi perdite al nemico, hanno preso contatto con le armate alleate nelle rispettive linee di fronte, accolte fraternamente. Sono state riarmate e equipaggiate ed esse sono nuovamente in prima linea, pronte a partecipare con gli alleati alla liberazione delle nostre città».
In verità, non sempre i reparti partigiani vennero subito «riarmati e equipaggiati», come abbiamo scritto della 62ª Brigata, i cui partigiani vennero inseriti di fatto in un reparto di seconda linea, addetto ai servizi del fronte.
Inizialmente, quindi, per i partigiani della «Pampurio» niente prosecuzione della lotta armata, ma solo occasioni di lavoro. Nella Divisione «Flower» i partigiani rimasero in forza fino al febbraio del 1945, equiparati, nel trattamento, ai soldati statunitensi, tranne che nel «soldo»: agli americani 200 lire giornaliere, ai partigiani 125.
Molto cordiali i rapporti fra i partigiani e le truppe alleate, soldati e ufficiali, tanto che nel febbraio, allorché i partigiani lasciarono il reparto dell’«88ª» ci fu rammarico da entrambe le parti.
Aderendo all’appello lanciato dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, con un volantino che porta la data del 16 febbraio, i partigiani della 62ª Brigata si arruolarono in blocco nell’esercito italiano di liberazione.
Insieme ai partigiani della 36ª Brigata e ad altri giovani provenienti da altre Brigate, partirono alla volta di Firenze lasciando definitivamente quei luoghi che per molti mesi li avevano visti combattere contro i nazifascisti.
Da Firenze, dopo una permanenza di pochi giorni, ripartirono, già arruolati, per Roma. Vennero accasermati in uno stabilimento in disuso della «Montecatini», nei pressi di Cesano, a circa venti chilometri dalla capitale.
Qui ebbe inizio l’addestramento, che si prolungò una quarantina di giorni. I circa 600 partigiani bolognesi si mischiarono con altre centinaia di giovani provenienti da ogni provincia del Mezzogiorno e dell’Italia centrale, volontari del nuovo Esercito italiano.
Terminato l’addestramento, equipaggiati all’inglese, vennero spediti, via treno, alla volta del fronte, ove giunsero nello stesso momento in cui l’offensiva finale degli alleati veniva scatenata. Era stato detto loro che le formazioni partigiane tali sarebbero rimaste, con il loro inquadramento e i loro comandanti, ma furono inseriti nei reggimenti della Divisione «Cremona» e sparsi a gruppi nelle varie compagnie.
Parteciparono all’offensiva partendo dalla località di Mezzano, oltre Ravenna, raggiunsero il Po e avanzarono nei Veneto. Qui li colse la fine della guerra.
A Ca’ dei Gatti e a Ca’ del Vento due grandi lapidi marmoree ricordano caduti e fatti d’arme della 62ª Brigata e del GBM. Una stele, sorta nel piazzale prospiciente la sede municipale di Monterenzio, è dedicata ai caduti delle Brigate 62ª, 66ª e 36ª.
In via Barbieri, a Bologna, una lapide ricorda il sacrificio di Kid, comandante della 62ª Brigata, ucciso il 27 ottobre del 1944 dai brigatisti neri. Ma le lapidi, si sa, invecchiano presto se i vivi non continuano la battaglia che le ha scolpite.