Durante la guerra di liberazione io ebbi numerose e varie responsabilità.
Feci parte del gruppo GAP che compì a Bologna la prima azione armata contro i tedeschi, la sera del 4 novembre 1943, nel centro della città, poi fui responsabile politico nell’officina «Ducati» di Borgo Panigale e responsabile politico del settore che comprendeva la zona delle fabbriche di fuori porta Saffi e come tale partecipai all’organizzazione e all’attuazione dello sciopero generale del primo marzo 1944; in seguito entrai a far parte del comando della 62ª Brigata Garibaldi e, quando questa si divise e una parte confluì su Bologna, io fui comandante di Brigata e partecipai alla battaglia di porta Lame e, dopo la battaglia, fui incluso nel comando della 7ª Brigata GAP e infine nel comando della Divisione «Bologna» e quest’ultimo incarico mantenni fino alla liberazione.
Nella 62ª Brigata rimasi dai primi di maggio 1944 fino alla battaglia di porta Lame del 7 novembre e cioè circa sei mesi che furono i mesi della crescita della Brigata dal gruppo iniziale che trovai quando raggiunsi la «base» del comando fino al suo massimo sviluppo e alla formazione, nell’ottobre 1944, del «Gruppo Brigate» comprendente la 62ª e la 66ª Brigata Garibaldi e alla discesa di parte della Brigata a Castenaso e a porta Lame.
Perciò penso sia giusto che io parli soprattutto della 62ª Brigata, pur facendo cenno, data la loro importanza, alla azione del 4 novembre 1943 e allo sciopero dei primo marzo 1944.
La sera del 4 novembre 1943, Vittorio Gombi (Libero), Libero Baldi ed io (tutti e tre, per caso, ci chiamavamo Libero), decidemmo per conto nostro di tentare un’azione diretta contro i tedeschi che da poco avevano consolidato il loro potere nella città.
I GAP erano appena all’inizio e bisognava «rompere il ghiaccio».
Ricordo che dapprima noi volevamo lanciare una bomba dentro a un caffè del centro ma passando sul posto vedemmo che la cosa era impossibile perché attorno a gruppi di tedeschi c’erano troppi civili.
Allora ci spostammo verso via Ugo Bassi ed aspettammo che alcuni tedeschi si concentrassero e ciò accadde vicino al ristorante «Fagiano», in via Calcavinazzi, nel pieno centro della città.
Noi ci appostammo all’angolo della strada con via Montegrappa e quando vedemmo il gruppo di tedeschi davanti all’ingresso del ristorante, Gombi staccò la sicura di una bomba a mano e la buttò nel gruppo: assistemmo un attimo all’esplosione e vedemmo che avevamo fatto centro e poi, via di corsa, ognuno per la sua strada.
Dal giornale apprendemmo il giorno dopo che tre erano stati i feriti gravi e altri leggeri, e poi i tedeschi se la presero coi fascisti perché non sapevano mantenere l’ordine e fu messa una taglia di 50.000 lire sulle nostre teste (un operaio comune guadagnava 1000 lire al mese), ma non contò nulla perché nessuno ci scoprì.
Dopo il fatto io ritornai normalmente alla «Ducati» dove, dal 1940, lavoravo come operaio rettificatore.
Nella fabbrica avevo preso contatto, già nel 1941, con dirigenti comunisti e, tramite Bruno Gombi, fratello di Libero, e Dalife Mazza, avevo conosciuto Gianni Masi che era il più attivo fra i giovani organizzatori di un movimento antifascista e di opposizione nelle fabbriche.
Nel 1942 ricordo che le posizioni antifasciste nella fabbrica erano già forti e gli operai, man mano che passavano le settimane, cominciavano a battersi non solo per rivendicazioni economiche, ma volevano anche che la guerra finisse e che i fascisti se ne andassero.
Nel 1943, già prima del 25 luglio, la tensione politica nella fabbrica era molto forte e quando, dopo l’8 settembre, si riprese il lavoro, lo spirito combattivo era molto elevato.
Nel gennaio 1944 cominciammo a lavorare per organizzare uno sciopero operaio nelle principali fabbriche bolognesi in coincidenza con uno sciopero nei centri industriali del nord occupati dai tedeschi.
Bisognava che alla «Ducati» si desse l’esempio perché era la più grande officina bolognese e una delle più grandi della regione.
Facemmo molte riunioni, diffondemmo all’interno molta stampa clandestina e il primo marzo 1944 lo sciopero riuscì, sebbene i tedeschi fossero stati informati e avessero circondato lo stabilimento con truppe e vi fossero in giro anche dei carri armati.
All’ora fissata, e cioè alle 10, come responsabile politico della fabbrica, fui io stesso a suonare la sirena che diede inizio allo sciopero e a portare fuori, mettendomi alla loro testa, gli operai dai loro posti di lavoro.
Gli operai cominciarono ovunque ad uscire dai reparti, dapprima lentamente, con preoccupazione, poi con slancio e anche quelli che avevano paura parteciparono.
Quando i corridoi della fabbrica furono pieni, fu nominata una commissione che aveva il compito di trattare coi dirigenti della «Ducati».
Ma la commissione, invece di trovarsi di fronte ai fratelli Ducati, si trovò di fronte ad ufficiali tedeschi.
Allora i nostri dissero che non erano disposti a trattare coi tedeschi perché non riconoscevano la loro autorità in Italia e che volevano parlare coi dirigenti dell’azienda.
I tedeschi li respinsero con la violenza e poi dall’altoparlante avvisarono che da quel momento l’amministrazione della «Ducati» era tedesca e che se entro un quarto d’ora gli operai non fossero ritornati ai posti di lavoro, la truppa avrebbe sparato. Una parte tornò al lavoro, ma molti che si erano messi in vista nello sciopero dovettero fuggire.
Altri furono arrestati. Io uscii dalla fabbrica e mi nascosi e poi andai a Minerbio e quindi nella 62ª Brigata Garibaldi che operava nelle montagne sopra Pianoro e poi si spostò nella zona di Monterenzio.
Per tutto il periodo fui ricercato dai nazisti e dai fascisti e violente minacce furono fatte anche ai miei familiari che non dicevano dov’ero: li misero più volte contro al muro, minacciando di fucilarli, ma loro continuarono a tacere.
Quando giunsi nella 62ª Brigata Garibaldi, questa si era formata da pochi giorni. Allora comandante era Mario Bordoni (Mariano) un garibaldino di Spagna che aveva fatto parte della «colonna Rosselli» e di formazioni anarchiche e come commissario ritrovai Libero Baldi, quello che con me e Gombi aveva partecipato all’azione del «Fagiano».
La Brigata occupava una vasta zona sopra Monterenzio, nella vallata dell’Idice e faceva normalmente attacchi di sorpresa ai tedeschi con piccoli gruppi mobili che approfittavano della conoscenza della zona e della cordiale ospitalità dei contadini che, per quanto poverissimi, facevano tutto il possibile per aiutarci.
Nell’estate 1944 la Brigata era forte di circa 800 uomini, considerando anche i collaboratori stretti e permanenti, e l’armamento era discreto.
Allora si riorganizzò il comando, del quale continuai a far parte, con la nomina a comandante della Brigata di Luciano Proni (Kid), mentre Jacopo (Aldo Cucchi) era vice comandante e Mario Ventura (Sergio) commissario politico.
Le compagnie ebbero una maggiore autonomia e il comando si collegò meglio col CUMER, a Bologna.
Nel quadro della riorganizzazione disposta dal CUMER per le Brigate di montagna, la nostra fu chiamata 62ª Brigata Garibaldi «Camicie Rosse» ed io fui nominato capo di stato maggiore e responsabile politico.
La sera del 13 giugno io ero rimasto ferito in un’imboscata sui ponte di Ca’ di Lavacchio, oltre Savazza, sulla strada dell’Idice.
Eravamo in 17 e finimmo sotto il fuoco nemico senza che ce ne accorgessimo.
Il commissario politico Libero Baldi e il partigiano Angelo Cevenini morirono e con me restarono feriti altri due compagni. Benché colpito alle gambe riuscii a nascondermi nel bosco e poi fui trasportato a spalla dal partigiano Carlo Mazzini fino alla chiesa di Cassano dove il parroco mi fece le prime cure e mi aiutò anche a sfuggire ad un rastrellamento tedesco.
Poi fui trasportato nei pressi di Castelnuovo, in una grotta scavata nell’argine del fiume Zena e con me c’erano altri due feriti. Io vi rimasi 25 giorni, mentre uno dei feriti, il più grave, fu trasportato a Bologna, all’ospedale Sant’Orsoia.
Rimessomi in forze, ritornai in Brigata nel periodo della massima intensità operativa e partecipai alla preparazione del piano per l’occupazione di Sassoleone che avvenne il 4 settembre 1944.
In quel notevole centro abitato, del comune di Casalfiumanese, eleggemmo l’amministrazione democratica che aveva contatto con la Brigata e con me in particolare.
Ricordo che alla popolazione distribuimmo molte decine di quintali di grano e che aprimmo anche una macelleria in paese per la distribuzione della carne, con un partigiano dentro, Pippo, che faceva il commesso.
In quel periodo il paese era tutto sotto il nostro controllo.
Il pomeriggio del 23 settembre 1944 una nostra squadra, comandata da Kid, era entrata come al solito, del resto, nel paese e all’imbocco del paese stesso vide arrivare un camion tedesco pieno di armi che portammo in Brigata.
Senza alcun indugio i nostri iniziarono la battaglia e due tedeschi (un maggiore delle SS e un soldato) restarono uccisi e tre riuscirono a fuggire.
I nazisti furono spietati e riversarono il loro odio sulla popolazione civile e la mattina del 24 settembre 1944 incendiarono il paese intero uccidendo 23 persone, fra cui il parroco, e, contemporaneamente, per evitare un nostro intervento, attaccarono le nostre «basi» con cannoni e mortai.
Il comando era allora ai Casoni di Romagna e altre compagnie erano schierate fino a Villa Sassonero, nel comune di Monterenzio.
Fra il 26 e il 28 settembre noi della compagnia comando subimmo un diretto attacco dei tedeschi.
Si capì subito che non si trattava di un attacco sporadico, ma di un’azione vasta, che coincideva con la battaglia di Ca’ di Guzzo che, frattanto, una compagnia della 36ª Brigata Garibaldi, stava sostenendo a breve distanza.
Anche noi appoggiammo quelli della 36ª Brigata in questa battaglia e avemmo anche un morto (Brescia).
Furono due giorni e due notti di durissima battaglia. Le forze in campo erano in quel momento circa 250 partigiani e un migliaio di tedeschi.
Subito il comandante Kid fu ferito da una pallottola che gli passò il polmone sinistro e per il momento si salvò grazie al coraggio di Sfilatino (Medardo Bottonelli) che se lo caricò in spalla passando fra le raffiche tedesche: non vivranno molto entrambi, il primo a morire fu Sfilatino e ciò accadde nella battaglia di Vigorso, il 18 ottobre, mentre Kid, prigioniero dei tedeschi, verrà fucilato a Bologna in novembre.
Anche il commissario politico Mario Ventura (Sergio) fu fucilato dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi dopo la battaglia della Bolognina del 13 novembre e dopo la battaglia di porta Lame.
La notte ci ritirammo verso Ca’ del Vento, dove c’era la 66ª Brigata e i primi giorni di ottobre formammo il Gruppo Brigate di Montagna (GBM), comprendente la 62ªa e la 66ª Brigata, con l’aiuto, utilissimo, del cap. Carlo Zanotti (Garian) che seppe dare in quel momento difficilissimo una direzione più razionale all’attività delle nostre formazioni.
Combattemmo uniti fin verso la metà di ottobre poi la nostra Brigata ebbe ordini dal CUMER di portarsi su Bologna.
In questo momento la Brigata si divise e una parte passò il fronte congiungendosi con gli alleati nella zona di Ozzano e Castenaso, dove partecipò alla battaglia di Vigorso del 18 ottobre 1944 e poi alla battaglia di porta Lame del 7 novembre 1944, a fianco dei gappisti della 7ª Brigata.
Qui morì anche il vice commissario della Brigata, Giovanni Cerbai e quindi del comando della 62ª eravamo rimasti vivi solo Cucchi ed io.
Dopo porta Lame, la 7ª Brigata GAP fu riorganizzata e particolarmente attive nell’inverno furono le squadre comandate da William ed Italiano.
Io fui inserito nel comando della 7ª Brigata con responsabilità politiche, e poi, come ho detto, feci parte del comando della Divisione «Bologna», col compito di tenere i collegamenti con le otto Brigate che componevano la Divisione, in vista dell’azione insurrezionale conclusiva.