Nel 1941-42 frequentavo l’Università di Bologna come studente in Medicina e Chirurgia. L’ambiente, se non antifascista, era certamente anticonformista: ricordo le lezioni di Istiologia e Anatomia del prof. Olivo ricche spesso di polemiche contro i tedeschi e i fascisti.
Io stesso che avevo avuto una educazione familiare antifascista, ero portato a collegarmi con studenti definiti «ribelli».
Fin quando, per tramite di un infermiere dell’ospedale Sant’Orsola, potei avere contatti con la Resistenza. Per una settimana restai insieme ad uno studente amico, Lino Conti, fra i canneti di canapa a Castenaso.
Ricordo che eravamo alimentati da un contadino nel modo migliore e poi, il 13 maggio 1944 (il giorno del primo bombardamento su Imola) partii, sempre con Conti, verso la Futa. A San Ruffillo, come convenuto, fummo caricati su una elegante macchina che ci portò oltre Pianoro: qui ci fu detto di scendere, di stare nascosti.
Sarebbero venuti poi a prenderci. Infatti verso le sette di sera, ci fu ordinato di uscire dalla siepe ove, sempre con l’amico Conti, eravamo rimasti nascosti per tutto il pomeriggio. C’erano altri giovani, 6 o 7, là convenuti ognuno all’insaputa degli altri. Fummo incolonnati lungo un sentiero e camminammo per tutta la notte.
Al mattino presto eravamo nella zona di Monte delle Formiche, controllata da quella che stava per essere la 62ª Brigata Garibaldi. Qui conobbi Aldo Cucchi, Denis Talon, Medardo Bottonelli, Pampurio e altri. Partecipai all’attività della 62ª Brigata, più che altro come medico, fino all’ottobre 1944, quando la 62ª Brigata si unì alla 66ª Brigata nella collina di Castel San Pietro formando il Gruppo Brigate di Montagna.
Durante una battaglia che la 62ª Brigata sostenne il 20 ottobre 1944, vidi morire Medardo Bottonelli, che chiamavamo «Sfilatino». Lo vidi che era ferito all’addome, da una larga raffica di mitraglia. Gli sollevai la camicia, e constatai che era in condizioni disperate: morì pochi minuti dopo e prima di morire si attaccò alle mie braccia.
Voglio ora ricordare una vicenda tutta particolare e fortunatamente andata a buon fine.
Durante i combattimenti sostenuti dalla mia Brigata nel settembre-ottobre del 1944, nello sganciamento verso la 66ª Brigata, vi fu un grave ferito tra gli uomini della mia compagnia.
Purtroppo ora non ne ricordo il nome. Presentava i segni dell’addome acuto con una vasta ferita da arma da fuoco al basso ventre. Non c’era nulla da fare; occorreva un intervento immediato. Questione di poche ore.
Con una decisione improvvisa e forse avventata, decisi di portare il ferito a Bologna.
Senza attendere consensi o approvazioni, con il solo aiuto di Lino Conti, su una scala e un pagliericcio alla meglio rimediati, il ferito venne trasportato ai bordi della strada nazionale della Futa. Io e Lino avevamo fatto una toeletta sommaria: c’eravamo rasati e accomodati alla meglio la capigliatura.
Avevamo indossato camicie un po’ decenti, pantaloncini corti e scarponi lucidati: unica difesa la rivoltella nascosta in cintura. Con il ferito rantolante attendemmo un po’ lungo la strada, infine udimmo il rombo di un camion che saliva: era un camion civile proprio diretto verso Bologna.
Balzai nel mezzo della strada e feci segno di fermare. Saltai sul predellino e all’autista dissi che c’era da trasportare un ferito da scheggia di bombardamento di aereo. Dovetti puntare la pistola per convincere l’autista.
Il ferito fu caricato sui cassone del camion con Conti vicino ed io, in cabina al fianco dell’autista. Arrivammo nei pressi di Bologna incrociando macchine e soldati tedeschi. Oltrepassata Pianoro, una pattuglia della «Feldgendarmeria» ci intimò l’alt. Dissi all’autista di proseguire.
A pochi metri dai tedeschi questi fecero cenno di proseguire indicandoci con la mano di andare piano e cauti. Avevano appena finito di sistemare una buca sulla strada e proprio in quel momento gli operai avevano terminato il lavoro.
Con il cuore in gola ed il pallore sudato dall’autista, tra gli sbalzi del camion e i lamenti del ferito, arrivammo infine a San Ruffillo. Feci proseguire ancora un poco e dissi di fermare in uno spiazzo vuoto.
Era ormai buio: il ferito fu disteso nel fosso a fianco della strada. Conti rimase con lui. Proseguii con il camion ancora per poco e lo feci fermare nei pressi di un bar.
All’autista dissi di andarsene e di non parlare se aveva cara la vita. Partì a razzo. Entrai nel bar. Presi il telefono e chiamai i pompieri. Dissi che c’era un ferito lungo la strada da trasportare subito al Sant’Orsola. Ritornai in dietro di corsa. Con Conti ci nascondemmo non molto distante dal ferito, non prima di averlo rassicurato e tranquillizzato sugli immediati soccorsi che presto sarebbero giunti trasportandolo in ospedale.
La lettiga giunse subito dopo, non tardò a trovare l’uomo a terra e ripartì veloce. Con Conti, a piedi, ci rimettemmo in viaggio attraverso i campi per rientrare in Brigata. Ho poi saputo che il ferito fu trasportato in Patologia Chirurgica, proprio nel reparto del prof. Franz Pagliani allora tristemente noto come esponente fascista.
Fu felicemente operato e mi risulta sia ancora vivo. Per questa azione so che dal CLN fu a suo tempo proposta una ricompensa al valore, di cui però non se ne è fatto nulla.
La notte della battaglia di Ca’ di Guzzo (27 settembre 1944), io ero dentro quella casa, là chiamato da Palmieri per medicinali (polvere sulfamidica) da lui richiesti.
Cenammo insieme e pensavo di restare tutta la notte data la nostra buona amicizia. Fui raggiunto però da una staffetta che mi portava l’ordine di Cucchi di rientrare immediatamente.
Così feci, a malincuore e con molta paura, perché la notte era solcata da bagliori, lampi e si sentiva che la battaglia non avrebbe tardato. Quando arrivai ai comando della 62ª Brigata, ai Casoni di Romagna, la battaglia di Ca’ di Guzzo cominciava.
Quando, all’inizio del novembre 1944, parte della 62ª Brigata affluì a Bologna e prese sede nella zona di porta Lame, io facevo parte di questo gruppo.
Ho partecipato insieme con altri 16 partigiani della 62ª Brigata alla battaglia di porta Lame del 7 novembre 1944. Eravamo in 70 a sostenere il più duro combattimento nella palazzina circondata dai tedeschi, che verso sera misero in azione addirittura un carro armato pesante.
Quando proprio più non credevo di uscirne vivo, approfittando dell’oscurità e della foschia creata dalle bombe fumogene mi gettai nel canale sottostante riuscendo ad allontanarmi.
Due giorni dopo ero di nuovo a Imola dove presi contatto, tramite mio padre, con staffette partigiane e il locale distaccamento della 7ª GAP.
Passai l’inverno nella casa dalla famiglia Carletti, poi nel collegio di S. Caterina di Imola, allora disabitato. Dentro al collegio eravamo io e Dante Pelliconi, allora comandante del distaccamento di Imola della 7ª GAP.
Ci assisteva don Giulio Minardi, parroco della Chiesa del Carmine. Naturalmente eravamo in contatto permanente con l’organizzazione GAP di Imola e Bologna e la nostra attività fu continua.
Purtroppo uno dei nostri fu arrestato con in tasca un biglietto a mia firma. Fummo costretti a distruggere tutto il materiale e ad essere più prudenti.
Verso mezzogiorno del 14 aprile 1945 venne nel nostro rifugio Ezio Serantoni a confermarci l’imminenza della liberazione.
Ci disse di riunire tutti i GAP, di armarci, di attaccare, e di salvare i ponti e le attrezzature cittadine. A me chiese di prendere subito contatti con il Comando alleato.
Dovevo agire da solo. Mi avviai, armato, con il fazzoletto rosso al collo, verso porta Appia. Lungo il viale della stazione vidi una pattuglia di soldati in divisa kaki: mi accorsi che erano polacchi.
Mi presentai come partigiano e questo mio primo contatto fu accolto con diffidenza; scortato da due soldati fui portato un chilometro più indietro, al comando da campo. Frattanto incrociammo altre pattuglie che avanzavano a passo di marcia lenta.
Giunto al comando, che aveva sede in una villetta di via Coraglia, fui presentato ad un maggiore dei carristi.
Diedi notizie sulla situazione a Imola, mi fu richiesto di segnare nella pianta della città, le sedi dei presidi fascisti, degli sbarramenti, dei campi minati, delle postazioni di artiglieria e anche se vi erano i camion di legno che i tedeschi mettevano in giro per ingannare gli alleati.
Si informarono su eventuali franchi tiratori e vollero anche sapere quanti erano i partigiani e le azioni compiute.
Ricordo di aver esagerato sul numero. Mi trattarono molto bene, mi offrirono caffè e sigarette.
Notai che le mie informazioni venivano immediatamente trasmesse per radio alle pattuglie avanzate. Un ufficiale mi prese il fazzoletto rosso che avevo al collo; ebbi l’impressione che volesse tenerselo per ricordo; infatti, in cambio mi diede sigarette.
Dopo circa un’ora, con una scorta ritornai al centro di Imola.
La piazza si stava riempiendo di gente. Davanti al bar Commercio avevano messo due damigiane di vino su un tavolo. Tutti bevevano.
Restai sorpreso nel vedere tanta gente con la fascia tricolore al braccio: io, che ero commissario del distaccamento imolese della 7ª GAP, non avevo mai saputo che vi fossero tanti partigiani armati a Imola.
Mi recai in Municipio, dove era riunito il CLN e la campana del Comune suonava a festa.
Al portone centrale mi fermarono, perché non si poteva salire sopra. Ero armato e salii ugualmente. Mi incontrai con Dante Pelliconi.
Fui invitato ad andarmene dopo che ebbi spalancato una porta. Rimasi malissimo.
Vidi diverse persone discutere attorno ad un tavolo. Era la prima riunione ufficiale del CLN.
Mi rimisi a tracolla la «maschinenpistole» e molto avvilito per questo primo scontro con la burocrazia, me ne tornai a casa, per riabbracciare i miei genitori.