(riassunto del saggio:Marzabotto, la Stella Rossa, la strage, la memoria di Mirco Dondi edito in "La montagna e la guerra, l'appennino bolognese fra Savena e Reno 1940-1945" di Brunella Dalla Casa, Alberto Preti Edizioni Aspasia
La brigata partigiana Stella Rossa nasce come una banda del mondo di montagna, ma è altresì una formazione che ben incarna lo spirito della Resistenza ponendosi in una forma aperta, mutevole e scarsamente adattabile a precisi modelli.
Si tratta inoltre della prima brigata, sorta in Emilia Romagna dopo l’8 settembre 1943, che con la sua presenza sembra sfidare la sancita impossibilità - stabilita dai politici antifascisti - di potere condurre la guerriglia partigiana nella zona bolognese dell’Appennino tosco-emiliano.
Altri gruppi erano sorti nella montagna bolognese sciogliendosi poco dopo nell’impossibilità di riuscire a dare una struttura stabile al loro insediamento. La storia di questa brigata presenta diversi aspetti in controtendenza rispetto al tipo di sviluppo assunto dal movimento di Resistenza nel bolognese che ha visto i suoi i primi partigiani provenire in prevalenza dalla città o dalla campagna dellapianura.
Molto spesso e limitatamente a questo periodo è però preferibile alla definizione di «primi partigiani» quella di «clandestini» considerando che alla scelta della macchia non corrisponde da subito e per tutti la possibilità di entrare in una brigata.
Inizialmente, nel periodo di gestazione della brigata Stella Rossa che va dal settembre 1943 al novembre dello stesso anno, compongono la formazione una ventina di uomini, tutti residenti nelle frazioni dei comuni di Monzuno e Marzabotto.
Sin dal suo nascere la formazione getta le premesse per ricevere il sostegno attivo e continuato della popolazione grazie a diversi uomini che immediatamente svolgono un ruolo di collegamento essenziale tra civili e partigiani. Il rapporto con la popolazione tende così ad essere pianificato ancora prima che la brigata cominci la sua attività.
Il ruolo di raccordo è svolto da uomini stimati all’interno della comunità e un risalto particolare va dato ai vadesi Umberto Crisalidi, Giorgio Ugolini, ma anche Giorgio Fanti e Antonio Nanni per limitarsi ai nomi più ricorrenti. Un’analoga funzione di collegamento è svolta da Guido Musolesi, fratello maggiore di Mario Musolesi «Lupo» che diventerà il comandante della brigata Stella Rossa, la formazione che opera prevalentemente in questa parte della montagna.
Crisalidi è un antifascista di vecchia data, già capolega prima dell’avvento del fascismo, consigliere comunale socialista nel 1920, poi perseguitato dal regime. Prima che Mussolini giungesse al potere, Crisalidi riscuoteva molta considerazione nel paese e questa stima non è venuta meno nel corso del tempo. E’ inoltre Crisalidi - che le testi monianze indicano come comunista - l’uomo che per primo pensa a una opposizione armata ai nazifascisti.
Già prima del luglio 1943 Crisalidi era in contatto con Giorgio Ugolini, il giovane che dopo l’8 settembre lo aiuta a raccogliere le armi che i soldati di passaggio dai paesi e dalla linea ferroviaria direttissima Bologna-Firenze abbandonano. Ugolini è uno studente liceale cattolico che riesce a coinvolgere per le riunioni preparatorie della brigata il parroco di Vado, don Eolo Cattani.
Il lavoro di pianificazione, accuratamente svolto dai responsabili della Stella Rossa, riguarda gli uomini e le strutture. Alla fine del 1943 si pensa anche a un arruolamento programmato evitando di includere da subito diversi uomini disponibili dirottandoli verso il più «sicuro» lavoro nella Todt.
Con la primavera del 1944 queste forze vengono poi inserite nella brigata e il lavoro con la Todt viene sabotato cercando soprattutto di convincere gli uomini che vi lavoravano a entrare nella brigata. Come un vero esercito, la Stella Rossa dispone di una rete di informatori posta a diversi livelli.
Nel Pfr locale Giulio Scappatori, Bruno Maestrami, Giorgio Fanti e Giorgio Conti sono il centro di una rete di uomini in grado di portare notizie sui movimenti dei nazifascisti e sui rastrellamenti. Con il contatto con gli uffici di Bologna le notizie potevano essere anche su un largo raggio. Quante informazioni siano state trasmesse alla Stella Rossa non è possibile stabilirlo. L’impressione è che giungesse ai comandi partigiani soltanto una parte di notizie.
Un’importante attività informativa viene svolta in tutte le formazioni dalle staffette, altro essenziale punto di appoggio della brigata nella società civile. Sono altrettanto vitali le concessioni ottenute dai contadini del luogo per adibire a deposito di armi, già dall’autunno del 1943, stalle e fienili.
Ritornato a casa Mario Musolesi (intorno al 23 settembre 1943) è contattato da Crisalidi che gli propone di intraprendere la lotta armata contro il nazifascismo.
Questo incontro (preludio a una stretta collaborazione), se è eccessivo vederlo come un’informale passaggio di consegne della leadership della comunità tra il cinquantunenne Umberto e il ventinovenne «Lupo», costituisce però un’importante legittimazione. Tanto Crisalidi quanto Musolesi, pur appartenendo a generazioni diverse, erano stati discriminati dal fascismo, le loro biografie li portano a un comune sentire, ciò che Crisalidi propone era già un preciso intendimento di Musolesi.
A quel punto è Musolesi che prende in mano la situazione e Crisalidi continua a lavorare per rendere operativo il progetto. La scelta di Crisalidi, persona estremamente oculata, di investire Musolesi, decidendo di mettersi al suo servizio, non è stata casuale, ma legata all’istintivo antifascismo di «Lupo» e al suo carattere determinato.
La necessità del momento era quella di trovare «alcuni giovani particolarmente coraggiosi capaci cioè di dare il primo esempio» con l’azione. Va inoltre considerato che il prestigio di Mano Musolesi nella zona era precedente la guerra partigiana, sebbene non sia mancato chi nutrisse antipatia nei confronti di «Lupo» sia prima che durante la guerra.
Musolesi era un uomo temuto dagli stessi fascisti con i quali si era concesso il privilegio di discutere. Uno dei più potenti uomini del Pfr di Bologna, Renato Tartarotti, arrivò persino ad offrirgli la reggenza del fascio repubblicano di Vado, carica che «Lupo» rifiutò con decisione di accettare.
La Stella Rossa nascendo come banda locale, raccoglie il tacito pronunciamento della comunità (o per lo meno di una sua larga parte) che vede nel «Lupo» un comandante naturale in quel momento eccezionale. Non soltanto le doti militari mostrate in guerra e un’indubbia attitudine al comando resero «Lupo» una figura idonea al ruolo di capo, ma anche la sua capacità di parlare bene in italiano e la sua indubbia intelligenza erano altri elementi che attribuivano rilievo alla sua persona.
Ci fu chi come Olindo Sammarchi detto «Cagnone», grande amico d’infanzia e di gioventù di «Lupo» non accettò, per ambizione personale, il predestinato ruolo di comandante attribuito a Musolesi nella riunione della sacrestia di Vado nel novembre 1943. La riunione nella sacrestia è importante perché di fatto (nonostante l’opposizione di Sammarchi e il temporeggiamento mediatore di don Cattani) attesta il comando di Musolesi.
Sammarchi, ventottenne nel ‘43 e di un anno più giovane di Musolesi, aspirava a sua volta a diventare il capo della brigata in via di costituzione, ma i tentativi da lui fatti di conquistarsi il comando non ebbero successo. Probabilmente intravide nel gruppo armato la possibilità di conseguire vantaggi finanziari tanto che Crisalidi ricorda in più conversazioni l’insistenza di Sammarchi sul denaro, quasi agognasse un arricchimento a scopo personale.
Viceversa Mario Musolesi, con il contributo dei suoi familiari, investe per la costituzione della brigata duecentocinquantamila lire: è il capitale iniziale indispensabile per avviare l’organizzazione. Il denaro serve, fra le altre cose, per l’acquisto di alimentari, del vestiario, di medicinali e di ferri chirurgici Il cospicuo investimento spinge Musolesi a inserire il suo nome alla denominazione ufficiale della brigata che diventa «Stella Rossa - Lupo».
Un’elezione democratica del comandante - come aveva proposto don Cattani per acquietare Sammarchi - non ci sarà all’interno della brigata dove la potestà di Musolesi era indiscussa e la sua presenza carismatica. Tanti altri comandanti di brigate partigiane non sono stati eletti, ma hanno caratterizzato il loro ruolo con la qualità della visione strategica e con la capacità di motivare i combattenti, aspetti senz’altro presenti nel rapporto tra capo e Stella Rossa.
Un altro aspetto importante, nel rapporto tra comandante e plotone, è l’età. Chi comanda, di solito, deve avere un’età maggiore di chi è sottoposto e questo requisito è in larga parte rispettato nella Stella Rossa, dove il 65,8% degli uomini appartiene a classi di età inferiore a quella di «Lupo» e il 15% circa ha soltanto pochi anni di differenza, in più o in meno, rispetto al comandante.
Il primo tratto è quello di una brigata autoctona tenuta assieme dai vincoli di vicinato e dal richiamo del luogo di nascita.
Sui dati campione di 334 partigiani della Stella Rossa (rapportati all’insieme degli effettivi che vi appartennero) risulta che il 54,3% è residente nelle zone montane delle operazioni della Stella Rossa o limitrofe a questa.
Riferendo invece il dato complessivo ai comuni di nascita dei partigiani appartenenti alla Stella Rossa, la percentuale delle zone dell’area montana sale al 65,4% sintomo di un’emigrazione dalla città verso i luoghi d’origine. I comuni e le frazioni considerati sono: Marzabotto, Monzuno, San Benedetto Val di Sambro, Castiglione dei Pepoli, Grizzana, Vado, Vergato, Camugnano, Sasso Marconi, Monte San Pietro. Castiglione dei Pepoli, uno dei comuni all’estremo sud dell’area montana considerata, porta alla Stella Rossa una significativa percentuale di uomini: il 9,3% dei residenti che sale all’11,4% considerando i nativi del comune.
La forte tradizione antifascista di questo paese esercita indubbiamente il suo peso. Marzabotto amministrato dal medico socialista - poi divenuto comunista - Amedeo Nerozzi è stata una delle quattro amministrazioni comuniste dell’Emilia Romagna prefascista cosicché i fascisti dovettero conquistare con la forza anche questo comune.
Ben il 18,3% degli uomini della brigata erano residenti a Marzabotto. La montagna, di solito considerata indifferente e in ritardo nel processo di politicizzazione che aveva investito le campagne della pianura, aveva registrato in queste aree significative presenze socialiste prima che il regime fascista si affermasse.
La costruzione della ferrovia direttissima Bologna-Firenze, la cartiera di Marzabotto e altri insediamenti industriali, come il canapificio di Pioppe, avevano contribuito, almeno in parte, a cambiare la fisionomia di quest’area montana.
Su questo dato incide la forte componente operaia giunta da Bologna, ma anche la mutata struttura economica della zona contribuisce ad alzare la presenza operaia.
E’ significativa inoltre l’alta percentuale di coltivatori diretti mentre uno dei dati più bassi in assoluto si riferisce alla componente impiegatizia. Aspetto unico fra tutte le brigate partigiane, la presenza di religiosi che viene a completare il riferimento sociale legato alla zona. Tutta l’area di azione della Stella Rossa si caratterizza per l’appoggio dei religiosi alla brigata.
Alcuni religiosi offrono un conforto morale, altri si impegnano più direttamente nel sostegno dell’attività partigiana, fra questi senz’altro don Giovanni Fornasini che il 25 luglio 1943 aveva fatto suonare a festa le campane per la caduta del fascismo. Don Fornasini svolgeva compiti di informazione a favore della Stella Rossa e fu riconosciuto come partigiano combattente.
In don Fornasini come in don Ubaldo Marchioni c’è l’esplicito riconoscimento che i partigiani rappresentano la comunità. I parroci esprimono questa considerazione nel loro linguaggio - «Anche i partigiani sono dei battezzati, come i miei parrocchiani; se loro non scendono, io salgo» - e nella loro opera. Don Fernando Casagrande si colloca sulla stessa linea di impegno degli altri parroci e il suo nome risulta iscritto dal 2 febbraio 1944 negli elenchi del Cvl.
Tutti e tre questi parroci, ancora giovanissimi, furono uccisi nei giorni della strage. Un appoggio al movimento di Resistenza fu offerto anche da don Eolo Cattani e da don Luigi Tommasini anche lui al centro di una rete informativa tra i civili e la brigata. Alla base di questo incontro si deve riconoscere un forte sentimento religioso delle popolazioni montanare.
La figura del parroco è rispettata come vengono sempre salvaguardate le sue funzioni (sono i partigiani a costruire una baracca per officiare le messe al parroco di Vado dopo la distruzione della chiesa), d’altro canto diversi partigiani erano stati buoni parrocchiani e il diffuso sentimento antinazifascista di larga parte della popolazione porta gli stessi sacerdoti a cogliere, seguire e ad approvare gli orientamenti della popolazione.
Sin dagli esordi la brigata riceve l’appoggio dei parroci forse perché risulta evidente la trasformazione da paesano a una figura che nei primi momenti non era ancora definita come partigiano, ma che si poneva in una condizione di disubbidienza di fronte alle risorte istituzioni del fascismo repubblicano.
Uno degli iniziali punti di forza della brigata è proprio la sua caratterizzazione autoctona, che conferisce tutt’altra solidità rispetto ai gruppi occasionali di soldati sbandati che si formano dopo l’8 settembre nell’Italia centrale e del nord.
Queste prime bande furono quasi sempre soggette a scomparire o a rimodellarsi profondamente. Anche la Stella Rossa subisce profonde e continue trasformazioni, ma non muta, se non in misura minima, la sua spina dorsale originaria.
Guardando al periodo di arruolamento, si può osservare come, al termine del dicembre 1943, la percentuale di uomini del posto o delle zone limitrofe raggiunga l’80,7%. Il nucleo dei locali non ha un’appartenenza di classe omogenea, ma si compatta e si riconosce nella figura del comandante Musolesi ed è questo uno dei riscontri più importanti che mostrano il carattere autoctono della brigata.
I primi fondatori (Mario Musolesi, Giovanni Rossi, Alfonso Ventura, Cleto Comellini, Guido Tordi), ricoprendo sempre, ad eccezione di Tordi, incarichi di vertice con un buon ascendente sugli uomini, avranno un ruolo decisivo per respingere proposte o ipotesi di trasferimento della brigata.
Nei ruoli chiave Musolesi inserì persone di sua fiducia, quasi sempre appartenenti all’area montana. Accade così che nessuno dei fondatori e montanari del luogo accolga l’idea di trasferimento a Montefiorino portata avanti da Sugano Melchiorri e difatti solo 85 uomini, di cui 40 disarmati, seguono Sugano.
Ci sarebbe stato uno spostamento ben più cospicuo se uomini come Rossi, Ventura o Celso Menini avessero accolto la proposta, ma né loro nè altri del luogo avrebbero mai voluto lasciare il loro territorio che consideravano il più sicuro e quello dove avrebbero potuto sopravvivere avendo a disposizione le strutture ausiliarie garantite dall’appoggio della popolazione.
Buona parte del primo nucleo di uomini che dà vita alla Stella Rossa è reduce dalla guerra nell’esercito fascista e torna nella propria terra con il fermo desiderio di rimanere.
In quel momento di grande difficoltà, il ritorno a casa era stato per tutti faticoso e denso d’insidie, una conquista che attribuiva al ritorno a casa un valore che avrebbe orientato il prosieguo della guerra.
Era come se la giusta ragione risedesse nel combattere a casa dopo che, per altre poco avvertite ragioni, si era combattuto lontano. Questo aspetto si ripercuote sul carattere di forte stanzialità del nucleo originario della brigata, una stanzialità che progressivamente va assumendo tinte ideologiche e strategiche.
Sul carattere ideologico della stanzialità, oltre all’idea della comunità da difendere, Musolesi per motivare i suoi uomini diceva: «Non dimenticate, compagni, quando sparerete colle vostre mitragliette contro il nemico, che la terra su cui combattete è vostra».
Per Musolesi ideologia e strategia sono tutt’uno, la forte riluttanza ad abbandonare le vecchie e natie aree d’azione si inquadra indubbiamente su un’osmosi tra popolazione e molti uomini della brigata che significa inoltre sicurezza delle basi, possibilità di foraggiamento, favore della popolazione e conoscenza del territorio.
Considerando i 334 giorni di vita della formazione (1 novembre 1943- 29 settembre 1944) la brigata trascorre ben 269 giorni nella sua area d’origine individuabile nel perimetro Monte Caprara, Monte Venere, Monte Tennine, Monte Salvaro, Monte Caprara.
La predilezione verso la stanzialità è difficilmente perseguibile con l’accrescimento della brigata. La stanzialità diventa così espressione della cultura - anche bellica - dei responsabili della Stella Rossa che appaiono sostanzialmente chiusi di fronte a proposte di trasferimento o di una maggiore mobilità su un ampio raggio.
E’ un aspetto che segna uno dei limiti strategici più evidenti di Musolesi e dei suoi uomini più fidati. La scissione dalla Stella Rossa del battaglione di Sugano Melchiorri, avvenuta nei primi giorni del luglio 1944, trova proprio sulla questione mobilità/stanzialità una delle ragioni più forti, riflesso di un contrasto non nuovo.
Melchiorri non considerava più sicura la zona di Monte Sole e desiderava raggiungere il distaccamento partigiano attestato nella zona di Montefiorino, altro luogo non facilmente difendibile. Una tensione tutta particolare tra mobilità e stanzialità la vive il partigiano Carlo Venturi, «Ming», il quale riconosce le buone ragioni di Melchiorri, ma preferisce rimanere con «Lupo» per non allontanarsi ulteriormente da casa, analoga scelta viene fatta da diversi partigiani della zona.
Dalle testimonianze di Tommaso Ballotta e Leopoldo Bonfiglioli, due partigiani che hanno seguito Sugano Melchiorri nel modenese, i motivi del rifiuto di Musolesi a spostarsi vengono ad arricchirsi. Per Ballotta «Lupo non sarebbe stato comandante di niente e non conosceva la montagna nel modenese».
Per Bonfiglioli, testimone oculare della disputa Musolesi-Melchiorri, l’area di Monte Sole era vista dal comandante della Stella Rossa come una postazione privilegiata: «Il Lupo disse: voglio essere il primo ad arrivare a Liberare Bologna».
Per Amedeo Mengoli «Lupo invece voleva restare in quella che era la sua terra, anche perché credeva che fosse il luogo utile per ricevere dei lanci di armi dagli alleati».
Al di là della perentorietà dell’affermazione di Ballotta, è plausibile che per Musolesi la stanzialità (o un movimento limitato) significasse sicurezza del comando. In un terreno sconosciuto Musolesi temeva probabilmente di perdere l’ascendente sugli uomini e di conseguenza indebolire le sue prerogative di comando.
Risulta inoltre che al di fuori dell’area di origine si siano accresciute le difficoltà di mantenimento della brigata, tant’è che, anche nei periodi di stazionamento nelle aree esterne di Pietramala o di Monte Pastore, la zona originaria di Monte Sole ha continuato a funzionare come appoggio, deposito, vettovagliamento, finanziamento.
E lo stesso vicecomandante della brigata, Giovanni Rossi, ad ammetterlo quando afferma che «la zona non cambiò mai».
Già in seguito al grande attacco tedesco del 28 maggio 1944, concluso con la vittoria partigiana, si pone il problema di sganciare la brigata dalla zona di Monte Sole.
La questione non viene decisa dal solo Musolesi, ma da un nucleo allargato ai comandanti di compagnia. «Lupo» viene messo in minoranza e la brigata che effettivamente non poteva sostenere a lungo una battaglia di posizione, si dirige verso sud - est a ridosso del confine con la Toscana.
La nuova zona è scarsamente abitata (sono dunque poche le opportunità di contare sull’appoggio dei civili) e per giunta ben presidiata dai tedeschi, così che viene abbandonata dalla brigata dopo qualche giorno. I partigiani tornano indietro attestandosi a Monte Pastore nell’area limitrofa alla zona originaria.
Gli spostamenti si impongono perché non potevano stazionare oltre mille uomini in un’area non sufficientemente ampia per occultarli tutti. Ormai la Stella rossa non è più la brigata partigiana composta da qualche decina di uomini che può fare della rapidità di spostamento e occultamento la sua forza.
La gestione di un migliaio di persone toglie ogni elasticità e richiede un apparato d’appoggio che solo un esercito ben organizzato può garantire. D’altro canto la zona di Monte Sole garantiva agli uomini i viveri, ma armamenti e munizioni erano del tutto insufficienti.
Inesistenti le armi pesanti che avrebbero potuto garantire un difesa più sicura delle postazioni. Non tutti possedevano i mitragliatori, la maggioranza usava moschetti da 14 colpi. Poteva anche capitare che si usassero munizioni non adatte al tipo d’arma posseduto.
Gli ultimi mesi della vita della Stella Rossa (in particolare dall’inizio di giugno) sono caratterizzati dalla ricerca di sicurezza che vede nello spostamento, lungo o breve, l’unica via di uscita. Ci si muove però sempre con l’obiettivo di ritornare nella zona d’origine non appena ristabilita la calma.
Effettivamente i trasferimenti sembrano diventare una valvola di sfogo non soltanto per alleggerire la pressione militare sulla brigata e sulla popolazione, ma anche per stemperare tensioni interne.
Il lungo trasferimento nella zona di Pietramala viene preparato in anticipo dallo «stato maggiore» della Stella Rossa. Due tra gli uomini più fidati di Musolesi, Celso Menini e Cleto Comellini, erano stati inviati nella zona per preparare lo spostamento e si era cercato di prendere contatti con la 36.a brigata Garibaldi che operava nelle vicinanze.
Le ragioni di questo ultimo spostamento - che per la Stella Rossa è da considerarsi lungo per tragitto e durata – sono legate alla constatazione del comandante della difficoltà a trovare alloggi sicuri per gli uomini nella zona d’origine, con molti degli effettivi ridotti in uno stato di evidente stanchezza.
D’altro canto, Musolesi era preoccupato dell’aumento delle rappresaglie sulla popolazione e dell’impossibilità della Stella Rossa di evitarle.
La marcia di trasferimento fu impervia perché l’azione nazista stava intensificandosi. Per la prima volta «Lupo» mostrò agli uomini il suo scoraggiamento e, mutando le regole in vigore sino a quel momento, lasciò liberi di andarsene coloro che volevano lasciare la formazione e difatti ci furono alcuni abbandoni.
Verso la fine dell’agosto la brigata torna in marcia dirigendosi nuovamente nella zona d’origine di Monte Sole.
Sui motivi di questo rientro non si hanno notizie.
E’ molto probabile, conoscendo l’inclinazione dei responsabili della brigata, che il trasferimento a Pietramala sia stato progettato come uno spostamento temporaneo.
I problemi che avevano indotto all’abbandono della zona di Monte Sole rimanevano. Era invece cambiato il quadro generale. Gli alleati avevano liberato Firenze e stavano avviandosi a ridosso dell’Emilia Romagna. La brigata a Pietramala, oltre a sostenere scontri con i fascisti, aveva avuto modo di ricompattarsi e risollevarsi sul piano morale, grazie anche alla nuova collaborazione con i commissari politici che avevano contribuito a meglio motivare gli uomini.
L’impronta del comandante è apparsa evidente anche nel rapporto con i commissari politici. Musolesi ha sempre considerato la sua formazione come autonoma e in linea con i comandanti delle formazioni autonome, si è dimostrato spesso ostile al ruolo svolto dai commissari politici. Musolesi conosceva o prevedeva i compiti dei commissari, non così buona parte del partigianato. Musolesi riteneva che la politica - che i commissari introducevano - fosse causa di divisione tra gli uomini mentre occorreva privilegiare l’aspetto militare. Il suo motto era: «prima la lotta contro i nazifascisti poi la politica». Sono stati diversi i motivi di avversione al ruolo dei commissari politici:
- Musolesi riteneva che il fascismo aveva avuto il sopravvento per le divisioni interne allo schieramento antifascista. I partiti non erano stati in grado né di bloccare il fascismo né di combatterlo.
- I fondatori della Stella Rossa avevano dovuto pagare il peso delle diffidenze del Cnl a creare nuclei di lotta armata nella zona della montagna bolognese. Il rapporto travagliato che questa formazione ebbe con il Cln prima e con il Cumer poi, va visto anche in relazione agli atteggiamenti iniziali del comitato centrale cittadino, contrario ad insediare uomini nella montagna e conseguentemente a sostenere la lotta di quelli che già vi operano A causa di questo atteggiamento iniziale del Cnl, «Lupo» finirà per riconoscere una legittimità limitata al Comitato di liberazione perché lo vede come quell’organo che interviene a cose fatte dopo che le difficoltà iniziali sono state autonomamente superate. Da qui anche il sarcasmo di «Lupo» nei confronti degli «strateghi della città (che) stanno seduti comodi mentre io faccio la guerra».
- Il timore che i commissari politici - uomini preparati e dotati di personalità - potessero finire per limitare il suo comando. Questo timore fu più evidente quando il Comando unico militare dell’Emilia Romagna (Cumer), cominciando a svolgere dal giugno del 1944 un ruolo operativo inviava i commissari anche allo scopo di coordinare l’attività delle diverse brigate, riducendo così i poteri dei comandanti.
A queste considerazioni fa eccezione la presenza di Umberto Crisalidi nel ruolo di commissario politico.
Anche Sugano Melchiorri, un comunista della pianura, appartiene al gruppo iniziale, ma la sua visione politicizzata non viene accettata dal resto del gruppo originario e da Musolesi in particolare. Melchiorri conferma che l’unico commissario accettato - almeno sino all’inizio del luglio ‘44 - era Crisalidi «anche perché era del luogo».
Crisalidi incarna la figura del commissario in modo atipico. E’ un antifascista comunista, ma non ha fatto della catechizzazione politica degli uomini il suo compito principale.
Per Crisalidi la politica sarebbe dovuta servire a motivare alla lotta per attribuire un senso alle azioni e consapevolezza agli uomini. Nonostante questi intendimenti Crisalidi, per lunghi periodi, non ha vissuto nella brigata, ma ha svolto funzioni di collegamento all’esterno continuando spesso a risiedere nella sua abitazione.
Soltanto intorno al 10 settembre 1944 Crisalidi svolge un’attività continuativa nella sede del comando di brigata dove diventa commissario generale e ha il compito di coordinare l’attività degli altri commissari. Crisalidi, pur sostenendo discussioni con Musolesi, è una figura che ha accettato i sistemi del comandante e che non ha inteso oscurarlo.
Musolesi, d’altro canto, nel compaesano Crisalidi, non vede un elemento di rottura, ma un personaggio che può ingrossare la formazione e che parla lo stesso linguaggio dei suoi uomini.
E’ come se Musolesi avvertisse nel lavoro di Crisalidi la consonanza di una giusta politica nel giusto luogo. Non sono però mancate dissonanze tra Crisalidi e Musolesi: il commissario ha a lungo insistito con il comandante affinché l’adesione al Cln fosse piena ed operativa.
Musolesi non ha indugiato ad usare toni pesantemente minacciosi nei confronti di Crisalidi, come nell’occasione in cui gli scrisse che l’avrebbe ammazzato se non avesse consegnato al comando tutti i moschetti raccolti dopo 1’ 8 settembre.
Avvenuto il chiarimento, «Lupo» si schernì dicendo che la minaccia era stata uno scherzo, ma indubbiamente l’intimidazione di Musolesi evidenziava nervosismo e insofferenza dovuti probabilmente a visioni differenti che i due avevano avuto su alcune questioni.
Giungendo i commissari dall’esterno - nuovi uomini con compiti in parte autonomi e rilevanti nella gestione psicologica della brigata - interviene non soltanto la diffidenza verso il politico, quanto la diffidenza verso il forestiero.
Si avverte tutta l’ombrosità di un mondo contadino e di montagna verso ciò che proviene dalla città; il nucleo originario della brigata mostra (tranne pochi casi) un sistema culturale chiuso verso l’esterno che sembra volere fare scontare il prezzo di un isolazionismo quasi imposto.
Ciò avviene nonostante Mario Musolesi avesse conosciuto anche altre realtà sociali, avendo vissuto a Bologna e trascorso un periodo da militare a Roma e a Napoli.
Diverse testimonianze - di partigiani del luogo e di partigiani e commissari giunti dall’esterno - interpretano la chiusura verso i commissari inviati dal Cln alla luce della dialettica città/montagna che coincide poi in un confronto tra le istanze di politicizzazione che provengono dalla cultura urbana o della pianura e la maggiore ritrosia politica mostrata dai responsabili locali della brigata di montagna.
Tra i contributi più acuti quello del partigiano monzunese Mario Nanni che interpreta, a distanza di tempo, gli screzi con i commissari nel difficile rapporto tra città e montagna sul quale - sostiene Nanni - «si innesta un non sempre facile scambio tra cultura scolastica e politica e analfabetismo scolastico e politico».
A queste forti cesure vanno aggiunti gli atteggiamenti non sempre appropriati di alcuni commissari, è lo stesso Sugano Melchiorri, partigiano favorevole ai commissari in brigata, ad ammetterlo.
Musolesi aveva cercato di mettere in più maniere in difficoltà i commissari. Alcuni di loro, appena raggiunta la formazione, furono tenuti prigionieri, per diffidenza o per «precauzione» anche per due o tre giorni.
Le difficoltà di accesso per i commissari paiono quasi insormontabili. Quando tre commissari, uno di questi era Ottani, stavano aspettando i partigiani in un punto concordato per entrare nella brigata, anziché trovare delle guide, vengono messi in fuga da un colpo di pistola. Per questi tre commissari l’entrata in brigata viene rinviata e nuovamente preparata dalla mediazione di Umberto Crisalidi.
Nella diffidenza di Musolesi c’è anche lo specchio di un rapporto mai pienamente lineare tra partigiani e politici che è uno iato non raro all’interno del movimento di Resistenza.
Per intralciare i commissari nella loro opera, Mario Musolesi cerca di imporne la nomina da parte dei combattenti, aspetto decisamente rifiutato dal Cumer.
Guerrino Avoni, un caposquadra della Stella Rossa ammette che «la vita dei commissari fu difficile e molti dovettero rinunciare». Il commissario Agostino Ottani definisce la sua vita in brigata «intensa e anche difficile» soprattutto perché venne allontanato da Otello Musolesi (un laureato bolognese di origine monzunese, parente del Lupo) comandante del battaglione al quale Ottani era stato assegnato.
Otello Musolesi aveva raccomandato a Ottani di non fare «divulgazioni politiche di parte». Il commissario ignorò questo consiglio e si fece sorprendere dal suo comandante mentre teneva una riunione di partito.
E’ una questione interna a ciascuna brigata stabilire in che misura il commissario possa essere soggetto all’autorità del comandante, è però emblematico per la Stella Rossa che non soltanto il comandante generale della formazione, ma anche il vice comandante Giovanni Rossi e comandanti di battaglione come Otello Musolesi e Alfonso Ventura (un fedelissimo di «Lupo», nel settembre ‘44 alla guida del IV° battaglione) si lamentassero dell’opera dei commissari, ritenuta potenzialmente disgregatrice della brigata; il timore è che i commissari stessero snaturando la caratteristica iniziale di formazione autonoma per trasformarla in una formazione comunista.
I fedeli di «Lupo» arrivano ad essere più ostili ai commissari dello stesso comandante. Sempre nel settembre del ‘44, in una riunione allargata di comando, si chiede e si ottiene dal Cumer l’invio anche di commissari non comunisti (giungono i cattolici-liberali Giorgio Fanti ed Enrico Elmi) assegnati ai battaglioni di Otello Musolesi e Alfonso Ventura.
Sino a quel momento erano giunti soltanto commissari comunisti perché questo partito poteva contare su «quadri» sufficientemente preparati che altre organizzazioni politiche non avevano e inoltre Crisalidi attribuiva la presenza comunista a un maggiore coraggio affermando che «non è colpa dei comunisti se gli altri non si arrischiano in questi boschi e su questi calanchi».
Indubbiamente la brigata, sotto l’impronta dei commissari politici, stava subendo una trasformazione visibile all’interno e all’esterno, segno che il messaggio dei commissari faceva breccia sugli uomini.
La visibile presenza dei commissari comunisti nella brigata, desta riserve nei collaboratori esterni della Stella Rossa che arrivano a minacciare di cessare la collaborazione «qualora fossero rimasti i comunisti».
L’arrivo di due nuovi commissari non comunisti restituisce alla brigata un’impronta autonoma, più differenziata rispetto alle più omogenee formazioni «Garibaldi» o «GL» organizzate dai singoli partiti.
La difficoltà di rapporti tra Cln e formazioni partigiane non ha riguardato la sola Stella Rossa, ma ha coinvolto nell’Italia del nord più formazioni di diverso orientamento e i dissidi sono sorti da questioni strategiche, gerarchiche o politiche tanto che ci furono alcune bande che si considerarono addirittura al di fuori del C1n.
La Stella Rossa non ha mai interrotto il rapporto con il Comitato di liberazione, (anche perché questo organo di tanto in tanto garantiva rifornimenti) ma si è trovata costretta a ridefinire i rapporti con il centro con 1’insediamento del Cumer.
Rifiutare i commissari che il Cumer decide di inviare può significare la fine della brigata. I contatti con il Cln prima e con il Cumer poi aiutano la brigata a mantenersi.
C’è stata però una svolta nel rapporto tra «Lupo» e i commissari a partire dall’inizio di agosto del 1944: in coincidenza con il trasferimento a Pietramala, si crea un sodalizio tra Musolesi e il commissario comunista Ferruccio Magnani.
Quest’ultimo è un personaggio rimasto impresso positivamente nella memoria di diversi protagonisti. Se le doti umane di Magnani sono state importanti per trovare un’intesa con «Lupo», questi, con il passare del tempo, si rendeva sempre più conto che non si poteva prescindere dal rapporto con il Cumer.
Dal Comando unico Musolesi si attendeva un invio regolare e consistente di armamenti e munizioni, aspettativa che il Cumer non riuscirà a soddisfare. La collaborazione tra comandante e commissario politico, risolleva il morale dei partigiani, rendendoli più partecipi dei destini della brigata.
I bollettini generali del Cumer, dove si ritrovano le azioni svolte dalla Stella Rossa, vengono letti agli stessi partigiani e sono la dimostrazione della risonanza avuta dalle azioni della brigata e un motivo di orgoglio per i suoi uomini nel sentire riportati questi eventi.
La schiarita dell’agosto ‘44, nel rapporto con i commissari, contribuisce a trasformare la brigata, pur non risolvendo definitivamente il problema della presenza dei commissari e del rapporto tra comando di brigata e Cumer. In particolare, l’ordine che il Comando unico rivolge a «Lupo» per indirizzarsi con le sue truppe in città in vista della liberazione, non viene accolto da Musolesi che reputava meno rischioso attendere gli alleati quindi congiungersi con loro e liberare la città.
L’elemento che più di altri caratterizza una formazione autonoma da una «politica» è la preminenza data all’elemento militare su quello politico, ed è questa la linea di Mario Musolesi che viene progressivamente contrastata da Sugano Melchiorri.
L’aspetto militare vuole essere elemento neutro per sottrarre la brigata all’etichettatura politica. Di autenticamente militare nella brigata Stella Rossa c’è poco.
Si trovano labili tracce di alcuni formalismi militari presenti nelle formazioni autonome piemontesi o friulane (come il saluto e il rispetto dei gradi) aspetti poco diffusi considerando la natura iniziale della brigata che è espressione del comprensorio montano.
«Lupo» ad esempio non pretende che gli sia dato del lei, ma Guido Tordi ricorda che il saluto era gradito (evidentemente ad alcuni comandanti di battaglione), sebbene vi fosse chi lo accettava e chi invece lo rifiutava.
La Stella Rossa, come quasi tutto il movimento partigiano, parte dal ripudio dell’esercito regio: le gerarchie sono stabilite dal comandante e attribuite inizialmente in base al rapporto fiduciario che si è instaurato tra gli uomini e il capo.
Soltanto nel settembre 1944 i comandanti di battaglione sono stati sottoposti alla verifica del voto degli uomini mentre il ruolo del comandante con potestà assoluta si è venuto ridimensionando nel corso del tempo dove ha prevalso una maggiore collegialità soprattutto per quanto riguarda la riorganizzazione della brigata, la nuova divisione in battaglioni e la localizzazione di ciascuno di questi.
La collegialità nella Stella Rossa riguardava, in determinate circostanze, anche le azioni da intraprendere.
Il corso di evoluzione della brigata, con cambiamenti determinanti nei mesi di luglio e agosto, porta la Stella Rossa nella sua fase finale ad assomigliare più ad una brigata Garibaldi che non a una brigata autonoma sul modello di quelle piemontesi o friulane.
La maggiore e ricercata autonomia della Stella Rossa non ha un corrispettivo politico con posizioni moderate seguite dalla maggioranza dei suoi uomini o dei suoi comandanti: nella Stella Rossa sono presenti cattolici che poi si impegnano con la Democrazia cristiana, ma la larga maggioranza degli uomini simpatizza per il Pci.
Dentro alla brigata è presente anche un gruppo di circa quaranta carabinieri - che si potrebbe supporre di fede monarchica - il cui massimo esponente è il tenente Giovanni Saliva al quale «Lupo» affida il compito di «capo di stato maggiore» della brigata, rispettando, da questo punto di vista, una gerarchia già maturata.
Se il nucleo locale della brigata mantiene una forte identificazione con i posti di comando, l’insieme della Stella Rossa è però divenuto eterogeneo dato che, oltre ai militi dell’arma, si trovavano arruolati anche una settantina di russi inseriti in un battaglione a parte, altri militari stranieri fuggiti dalla prigionia tedesca e una serie di delinquenti comuni fatti evadere dal carcere bolognese di San Giovanni in Monte.
La varietà di soggetti presenti nella formazione nel corso dell’estate del ‘44 impone un buon esercizio di disciplina, che proprio nel mese di luglio del ‘44 sembra essere carente.
Nella brigata non vi è nulla di militare per quanto riguarda le punizioni per le infrazioni disciplinari, che hanno un’applicazione casuale e non sempre uniforme.
Il comandante Musolesi varia il metro di giudizio a seconda dei soggetti, spesso faticando dal prescindere dai legami di amicizia o parentela. Sotto questo profilo «Lupo» non dimostra una mentalità militare.
L’atteggiamento incongruente del comandante Musolesi si presenta in diverse circostanze.
Ad esempio, nei confronti di un partigiano atipico come Ettore Ventura «Aeroplano», «Lupo» dimostra grande tolleranza, finendo per scontrarsi con il più intransigente Sugano Melchiorri.
Il partigiano «Aeroplano» è audace, ma estraneo alla disciplina militare e ai più impiegati codici di comportamento dei partigiani. «Aeroplano» è scoperto mentre cerca di comprare l’amore di una ragazza con delle stoffe, subendo la punizione di Melchiorri contro il parere di «Lupo».
Ettore Ventura commette in seguito il tragico errore di sparare a due compagni, uccidendone uno e ferendo l’altro, che gli avevano chiesto, incontrandolo nella notte, la parola d’ordine. Ettore Ventura compie poi un’ennesima infrazione alla disciplina della clandestinità: torna a casa, viene avvistato da una spia ed ucciso dai tedeschi.
Un’altra circostanza dove Mario Musolesi si dimostra tollerante avviene dinanzi all’indisciplina del tenente «Celso», il monzunese Celso Memni comandante di battaglione, che un rapporto al Cumer denuncia assente dal comando di battaglione sia di giorno che di notte.
Musolesi è inoltre poco severo nel punire alcuni suoi uomini che avevano compiuto lievi furterelli, limitandosi a rimproverarli, scontrandosi ancora una volta con Sugano Melchiorri che chiedeva una punizione esemplare, un ennesimo comportamento prepotente e pericoloso - ma a quanto pare scarsamente stigmatizzato - si era verificato da parte di alcuni partigiani di «Lupo» che per cercare viveri, avevano fatto irruzione in una villa catturando cavalli e mettendo a soqquadro la residenza del conte Ranuzzi.
Controllare un crescente numero di uomini diventa un’obiettiva difficoltà, la disciplina non è un’istintiva vocazione per tutti i partecipanti: «c’era chi usciva per andare a fare i cavoli suoi, questo non era giusto, c’era chi usciva e poi, mentre era fuori compiva delle azioni che non erano state decise».
A Carlo Venturi «Ming», insieme a Claudio Quarantini, capita proprio di partecipare a una azione decisa autonomamente dal loro comandante A. Gol. che doveva essere rivolta contro un signorotto fascista; l’esito però è tragico. A. Gol., male informato da una staffetta che ha poi evitato di farsi rivedere, ordina di sparare, ma il bersaglio non è l’abitazione del fascista bensì la casa di un proprietario collaboratore della Resistenza che stava ospitando alcuni partigiani.
Nell’attacco la compagnia di Gol. uccide un partigiano e ne ferisce gravemente un altro. Di fronte a questo caso, la prima intenzione di «Lupo» è quella di fucilare Gol. perché «era andato a compiere un’azione di guerra senza informare preventivamente il Comando dell’obiettivo prescelto». L’esecuzione punitiva però non avviene, Gol. viene degradato e trasferito ad un’altra compagnia.
L’assenza di disciplina che diventa soprattutto mancanza di coordinamento e organizzazione, si può ritrovare nei sistemi di approvvigionamento alimentare della formazione che talvolta è avvenuto in modi non concertati con la conseguenza di perdere del cibo o distribuirlo irregolarmente.
Mario Musolesi si dimostrava particolarmente severo verso chi perdeva le armi prevedendo per questa infrazione il palo o una pena ancora maggiore. Come visto, ciò che poteva incidere sulle pene dipendeva dal rapporto diretto che c’era tra il partigiano e il comandante. Sull’entità della pena da infliggere talvolta ci sono delle discussioni o anche risentimenti fra gruppi diversi, cosicché iniziali provvedimenti severi possono rientrare.
Sul rapporto con le armi corre molta parte delle storie delle formazioni partigiane. Nella Stella Rossa vigeva una sorta di apprendistato: difficilmente venivano date armi automatiche agli ultimi arrivati e non sempre e soltanto per una questione di carenza di armamenti: ciò però evitò - a giudizio di Tommaso Ballotta che combattè nella Stella Rossa e poi a Montefiorino - che avvenissero incidenti accidentali dovuti al l’inesperienza come si verificarono invece tra i partigiani di Montefiorino.
Nell’insieme non si può affermare che non esistesse alcuna disciplina dentro alla formazione, per quanto le infrazioni paiono evidenti. Il partigiano Mario Nanni afferma che «la nostra disciplina era autocoscienza», ma questa non era sviluppata per tutti allo stesso modo. Le testimonianze confermano l’allentamento della disciplina nella formazione verso la fine di luglio del 1944 e il successivo ricompattamento avviene il mese successivo a Pietramala, grazie al concorso determinante dei commissari.
Questo lavoro di collaborazione tra comandante e commissari si riflette anche negli appelli indirizzati agli uomini. In un documento del 14 agosto 1944 il comando della Stella Rossa invitava gli uomini a una «disciplina massima in ogni più piccola manifestazione della giornata», alla «subordinazione assoluta ai propri superiori», riflettendo la visione gerarchica di «Lupo» sulla truppa, mitigata dall’ultimo capoverso, di più schietto spinto resistenziale, che fa riferimento alla fratellanza «non solo subita perché impostaci dalle necessità della vita in comune, ma sentita in ogni sua intima essenza soprattutto in una reciproca assistenza».
Ci sono inoltre aspetti che riguardano la disciplina della clandestinità, con un codice pratico del combattente che occorre cercare di rispettare al fine di garantire la sicurezza della formazione.
Anche su questo aspetto Mario Musolesi si dimostra carente e prigioniero dei più tipici codici comportamentali della cultura montanara e paesana.
In definitiva Musolesi continua ad essere un civile e nonostante i suoi successivi sforzi, non riuscirà ad assumere un abito davvero militare. A lungo Musolesi rimane prigioniero dell’amicizia - che la guerra rende insicura quando le due persone si trovano schierate su fronti opposti - e del vincolo parentale.
Ci sono alcuni casi significativi, che al di là dell’ingenuità e degli errori di valutazione, mostrano lo spessore umano di Musolesi.
Ad esempio «Lupo» prova un forte turbamento quando appare sicuro che il vecchio amico di infanzia e adolescenza Olindo Sammarchi lo ha tradito.
Sammarchi, passato nel Pfr, tenta in più occasioni, tramite terze persone, di fare uccidere Musolesi.
In queste circostanze «Lupo», inconsciamente incredulo di quanto stava accadendo, indugia, mettendo a repentaglio la sua incolumità.
Capita così che Musolesi non uccide immediatamente la spia, Amedeo Arcioni reo confesso, che doveva attentare alla sua vita.
Arcioni rimane diversi giorni in brigata senza che «Lupo» - indisponendo anche i suoi fedelissimi - desse l’ordine di sopprimerlo.
L’uccisione fu inevitabile soltanto quando Arcioni accoltellò di sorpresa Musolesi ferendo anche Giovanni Rossi e Alfonso Ventura.
Ciononostante Musolesi tentenna ad ordinare di agire contro Sammarchi. L’azione prevedeva la cattura, senza uccisione, di Sammarchi, quest’ultimo però, ormai vistosi prigioniero dopo un’imboscata partigiana, estrasse la pistola, ma Sugano Melchiorri fu più rapido di lui e lo ferì mortalmente.
In occasione dell’arresto di un fascista nella caserma di Tolè «Lupo», in contrasto con altri e con Sugano Melchiorri, non vuole processare il prigioniero perché parente di un partigiano.
Un altro avvenimento che riproduce in maniera più ampia il caso sopra esposto, riguarda la presa in ostaggio di cinque fascisti monzunesi da scambiare con i familiari di Mario Musolesi (scambio poi avvenuto) tratti in arresto da elementi del fascio repubblicano.
Questa azione desta forti paure nei partigiani monzunesi, timorosi che a un eventuale loro riconoscimento segua la rappresaglia contro i familiari rimasti nel paese. Anche in questa circostanza la disciplina della clandestinità non viene rispettata: le precauzioni prese per mettere al sicuro la brigata e i suoi uomini sono state insufficienti.
Ai cinque fascisti in ostaggio si fa promettere, pur sotto minaccia, di non riferire nulla di quello che si è visto una volta tornati liberi. Uno di questi fascisti, Raffaele Fanti, viene meno alla promessa e a Monzuno ha luogo il rastrellamento di una cinquantina di persone a cui fanno seguito alcune deportazioni in Gennania.
Fanti avrebbe riferito di uomini e luoghi: la brigata a questo punto si trova in serio pericolo, siamo all’inizio dell’agosto del ‘44 ed è anche in seguito alla reazione di Fanti che si rende necessario il trasferimento della brigata a Pietramala.
Nella storia della Stella Rossa più d’una spia tenta di entrare nella brigata e con il passare del tempo i partigiani diventano sempre più diffidenti.
Per l’aspirante partigiano Tommaso Ballotta «il primo impatto fu terribile», presentatosi in divisa da «repubblichino» gli interrogatori furono «stringenti e pesanti.
Fortuna volle che nella brigata ci fossero dei compaesani che conoscevo e questi garantirono per me».
Di fronte ai nuovi arrivati dei quali non si disponevano informazioni certe, «i sistemi pesanti» menzionati da Ballotta consistevano in false impiccagioni, nella messa al palo o al muro.
Non sempre questa procedura garantiva dall’inserimento di spie. Le staffette in questo contesto possono ricevere l’ordine di cercare informazioni sui nuovi arrivati, come capita a Ines Crisalidi che arriva sino a Pianoro per chiedere ragguagli a un barbiere del posto.
Soltanto la nascita autoctona della brigata ha potuto permettere il compimento di un lavoro di «pianificazione» nel rapporto tra formazione armata e civili.
E’ stata utile e originale l’opera di proselitismo compiuta nelle famiglie contadine da Umberto Crisalidi da solo o insieme a «Lupo», Giovanni Rossi e Alfonso Ventura, per convincere i capifamiglia a mandare i figli nella formazione parlando degli obiettivi che questa lotta si propone.
Non si cerca di convincere le famiglie attraverso visite formali unicamente legate alla necessità di ricercare nuovi arruolati. Gli incontri avvengono seguendo i codici più comuni della socialità del luogo, si gioca a carte - di solito «bestia» o «massino»- poi il lavoro di «arruolamento» comincia quando se ne vanno le donne e rimangono gli uomini e i giovani.
Il «contatto buono», i rapporti di conoscenza o amicizia, nel quadro di una situazione generale preoccupante, determinano l’esito positivo di questi percorsi di arruolamento che maturano passando da un’iniziale riluttanza per arrivare all’idea che gli uomini armati «erano compaesani che conducevano una lotta comune a tutti».
Queste visite permettono ai responsabili della Stella Rossa di disporre di una buona mappatura delle case amiche. Già la scelta di andare a giocare in una determinata casa è legata alla previsione di ottenere una collaborazione. In queste zone sono comunque rimaste pochissime le persone che continuano a guardare con un occhio di favore ai fascisti.
Fra la popolazione è già presente un sentimento antibellico che si avvia a sfociare, come in parecchie parti della Penisola, in un antifascismo istintivo e primordiale. E’ questo diffuso stato d’animo la principale ragione che permette alla Stella Rossa di proliferare e vivere in questo terreno. L’iniziale impronta locale della brigata finisce così, quasi automaticamente, per spingere i consensi di molti verso il movimento resistenziale.
All’interno di questo quadro vanno mantenute delle distinzioni e, stante un diffuso antifascismo della popolazione, il consenso e l’aiuto verso i partigiani cambia da zona a zona: se il sostegno appare esteso e pieno nella bassa Val di Setta e sui pendii di Monte Sole, deve invece riscontrarsi la maggiore freddezza dei civili nelle zone alte di Monzuno.
L’iniziale carattere autoctono della banda tende a riflettersi, anche per altri casi in Italia, su un profilo più sommario di politicizzazione, che consente però un migliore approccio nei confronti della popolazione.
Ci fu chi diede somme in denaro alla Stella Rossa convinto che si trattasse di uomini compaesani da tenere nascosti. La dimensione armata del gruppo non è colta subito da tutta la popolazione, considerando inoltre che per diversi uomini la scelta tra rimanere nascosti e combattere è un dilemma che non viene sciolto all’istante; soprattutto i più adulti vivono questi momenti con un lungo travaglio e una parte di questi uomini rimane semplicemente nascosta senza combattere.
L’atteggiamento della popolazione nei confronti dei partigiani non deve essere assunto come costante. Le azioni dei tedeschi creano una ripulsa e anche nuove adesioni alla Resistenza, ma esiste, in una parte della popolazione, anche un atteggiamento di stanchezza nei confronti dei partigiani.
Alcuni civili in quest’area passano così dall’iniziale appoggio verso la brigata al risentimento nei confronti degli stessi partigiani per i pericoli che le loro azioni fanno ricadere sulla popolazione e per l’appoggio materiale che sono costretti a offrire. L’iniziale appoggio è legato alla conoscenza delle persone che si nascondono o che fanno i partigiani - amici del bar e vecchi compagni di scuola -; agisce su questo motivo la solidarietà del paese.
Come nei giorni seguenti all’8 settembre 1943 la popolazione aveva aiutato i soldati italiani per evitare che venissero catturati dai tedeschi, così, nei primi tempi, sembra agire lo stesso tipo di solidarietà: aiutare gli uomini per non farli cadere prigionieri dei tedeschi.
Il dissenso matura quando si constata che questi uomini non fanno più l’interesse del paese mettendolo in pericolo con azioni imprudenti. Chi ha fornito i primi appoggi, giustifica il suo successivo distacco - morale o materiale - in seguito alla prevalenza dei «duri» all’interno della brigata.
Margherita Iannelli - riconosciuta come patriota - afferma che la banda perde i suoi elementi migliori o perché disgustati da azioni di semplice rapina nei confronti dei civili, o perché in disaccordo sulle azioni di guerra compiute, come nel caso dell’uccisione di un tedesco.
Margherita Iannelli appartiene a una famiglia contadina in una frazione - San Nicolò - di fitto passaggio partigiano. I componenti della famiglia Iannelli, avendo deciso di collaborare, rendono la loro casa un approdo frequente per gli uomini della Stella Rossa.
L’appoggio continuo che la famiglia offre, mette gli abitanti della casa in uno stato di continua tensione e pericolo non preventivato in questa misura al momento dell’adesione.
I partigiani spesso vengono anche meno ai criteri di prudenza stabiliti: anziché aspettare nel bosco irrompono nella casa creando ulteriore pericolo. La Iannelli rimane inoltre colpita dai modi inurbani e spesso arroganti dei suoi ospiti, cosicché non mancano battibecchi tra le donne della casa e gli uomini armati.
E' inoltre assai probabile, data anche l’indisciplina e l’anarchia della brigata su alcuni aspetti, che taluni prelievi partigiani siano avvenuti senza emettere il buono, la ricevuta del prelievo che ha consentito di ottenere i rimborsi nel 1946.
Accade così che nella popolazione un generico sentimento di antinazismo non sia stato sempre sufficiente ad offrire aiuti spontanei alla banda. Da un lato la miseria, dall’altro la paura delle ritorsioni tedesche, sono aspetti che frenano la collaborazione di una fetta di popolazione al punto da sentire l’appoggio offerto ai partigiani come una costrizione necessaria.
C’è umanamente e inevitabilmente soprattutto nei contadini, tra i pochi che potevano offrire qualcosa, l’attaccamento alla «roba» che coesiste con una strategia elementare per sottrarsi alle richieste partigiane del tipo: «andate da quelli che stanno con i nazisti».
Altre testimonianze mostrano come, nei casi nei quali il partigiano compie un atto di forza, rimane nei civili la memoria di questo atto e la consapevolezza di dovere soggiacere a chi è più forte.
In queste testimonianze, l’acuta percezione del pericolo assieme alla cosciente debolezza del civile, rispetto a chi è armato, mostrano come prospettiva primaria l’istinto di sopravvivenza. In queste situazioni il civile pensa per sé, gli è estranea la dimensione del gruppo (il gruppo partigiano e la sopravvivenza da conquistare l’uno nell’interesse dell’altro).
L’idea di gruppo viene identificata con le parti in armi. Se ci si può salvare, ci si salva in quanto singoli, il rifugiato, l’anziano, la donna. I giovani vivono meno questa prospettiva solitaria, di solito per la loro scarsa percezione del pericolo, mentre le donne e gli anziani hanno da subito un’accentuata sensibilità verso ogni tipo di insidia.
E’ inoltre la donna, più dell’uomo, che sente minacciato il focolare domestico. Per la donna l’incendio della casa è il pericolo più vicino e più temuto.
Le memorie femminili mostrano un’insistente attenzione verso questo tema. Così, a cinquanta anni di distanza dagli eventi emerge, anche in coloro che simpatizzavano per il movimento di Resistenza, una memoria diversa, senz’altro più completa. Il rischio che comporta la presenza partigiana non è più sottaciuto.
C’è stato indubbiamente, in diversi civili, uno sforzo, quasi sovraumano, per sfuggire alla guerra e il loro non prendere posizione sembra rivendicare il proprio diritto a vivere tranquillamente. La guerra però non si poteva chiudere fuori dalla porta e obbligava a delle scelte.
Chi non vuole prendere posizione in realtà deve giocoforza soccombere alle richieste degli invasori tedeschi, troppo forti e spietati per ricevere rifiuti. L’unica strategia possibile allora diventa quella di non compromettersi con i partigiani, fingendo che non ci sia un’invasione e che l’ordine costituito sia quello dei tedeschi.
Ma anche i partigiani hanno una forza. Paradigmatico per questo tipo di situazioni il caso del postino Angelo Bertuzzi, concordemente descritto come una persona pacifica, che subisce le pressioni di entrambe le parti: «Lupo» gli intima di tacere circa la presenza partigiana e minaccia di ucciderlo qualora parlasse, i nazifascisti con modi altrettanto violenti gli chiedono invece di raccontare quello che sà.
Tutti i civili hanno ovviamente paura. C’è chi reagisce alla paura chiudendosi in se stesso e chi prendendo posizione. Accettare di aiutare i partigiani è sentito da chi lo compie come un atto a favore della propria comunità, un aiuto utile a mandare via prima i tedeschi, i veri invasori.
Portano i segni della loro scelta quelle donne che lavano la biancheria dei partigiani, quelle altre che cuciono le divise e non si tratta sempre di mansioni prive di rischi considerando la frequente irruzione nello spazio domestico delle truppe germaniche.
Altre testimonianze partigiane appaiono più uniformi nel descrivere l’appoggio ricevuto dalla popolazione. Colpisce di queste testimonianze l’insistenza, penetrata nella memoria, sugli aiuti ricevuti. E’ un aspetto che vuole evidenziare il sentimento di gratitudine di chi racconta e la presa di posizione della popolazione a favore del movimento partigiano.
In maniera diversa, ma altrettanto perentoria il partigiano cattolico Ivo Teglia afferma che «noi senza gente non avremmo potuto esistere» - topos ricorrente della memorialistica partigiana - tenendo però a sottolineare la spontaneità dell’aiuto ricevuto: «non ho mai avuto l’impressione di essere di troppo».
Osservando le memorie dei civili non mancano i riscontri positivi verso l’operato partigiano. Il «civile» Francesco Pirini allora diciassettenne che viveva alle Murazze - zona di passaggio partigiano - afferma che «i partigiani prendevano da chi aveva in sovrappiù. I partigiani davano una mano a lavorare ai contadini. C’era un rapporto buono.
Il reciproco sostegno rinsalda il rapporto partigiani contadini; l’aiuto dei combattenti ai lavoratori della terra è tipico anche di altre zone come Montefiorino dove il gruppo di partigiani appartenuti alla Stella Rossa lavora nei campi.
Una spia dell’appoggio dato dalla popolazione può riflettersi anche sulla considerazione nella quale sono tenute le donne che aiutano i partigiani svolgendo funzioni di collegamento con la brigata.
Dall’insieme delle testimonianze raccolte, risulta chiara la favorevole considerazione verso queste donne, purché rispettassero i comuni principi di moralità, legati in questo caso all’andare e tornare. E’ inoltre pienamente accettato anche il vincolo parentale - che può giustificare anche presenze continuate nella brigata come per il caso delle sorelle di Musolesi -.
Il carattere della brigata con una forte componente locale finisce anche per riflettersi con giudizi generalmente positivi verso chi porta un aiuto perché l’azione può andare a beneficio di un conoscente, di un amico o di un familiare.
Dal punto di vista dello stato maggiore della brigata, il rapporto con la popolazione non è visto soltanto in chiave di semplice spoliazione, ma ambisce ad instaurare un rudimentale rapporto di ridistribuzione: si prelevano somme ingenti dai più ricchi (utili per acquistare armamenti e cibo), si distribuiscono beni alla popolazione, soprattutto ai meno abbienti.
Osservando i bilanci della brigata emerge, dal novembre 1943 al giugno 1944, un’attività di assistenza a favore della popolazione che si esprime con diverse modalità. In otto mesi risulta a bilancio un contributo per i civili quantificato in L. 6.774.727. La quasi totalità di questa somma è in beni e non in moneta.
Dentro a questa cifra vi rientrano importanti distribuzioni quali quella del novembre 1943 e quella, decisamente più cospicua, del giugno 1944. La distribuzione del novembre 1943 è importante perché indirizza su buone basi il rapporto tra brigata e popolazione.
I clandestini in accordo con il parroco di Vado, don Cattani e con il veterinario del paese, Giorgio Fanti, decidono di far aprire l’ammasso di grano e di distribuire un quintale a persona. Si tratta di un gesto tanto propagandistico quanto eclatante che porta a maturare nei civili le prime consapevolezze.
L’altra importante distribuzione a beneficio della popolazione avviene nel giugno 1944. I beni assegnati, stimati su un valore di L. 6.500.000, sono tessuti, frutto della requisizione di un magazzino che conservava materiale dell’esercito tedesco.
La cifra del reale esborso di denaro e di viveri della brigata in favore della popolazione civile viene quantificata in 276.777 lire, somma comunque considerevole per il periodo, e che corrisponde al 6% delle uscite complessive del bilancia della brigata.
Al di là di affermazioni di principio dei civili, pro o contro la brigata, ci sono una serie di situazioni accertabili assai utili per capire l’autentica dimensione del rapporto tra civili e partigiani. In molte aree esiste quasi una contiguità tra civili e partigiani di modo che, chi vuole un contatto con gli uomini della Stella Rossa, riesce ad averlo facilmente.
Così capita a Giuseppe Castrignano che, intenzionato ad aggregarsi alla formazione, ottiene informazioni «attraverso un incontro del tutto casuale con una ragazza di nome Gina». Il facile accesso alla Stella Rossa agevola però anche gli infiltrati fascisti che giungono da Vado o Marzabotto.
Si tratta di disegni orditi dal fascio repubblicano e che restano in larga parte estranei alla popolazione che vive nei paraggi della brigata.
La popolazione era rimasta fredda di fronte alle allettanti sollecitazioni a collaborare presentate dal fascio locale e non soltanto per timore dei partigiani. Gia nel 1943 il fascio aveva messo la elevatissima taglia di un milione per chi avesse fornito informazioni utili a catturare il comandante Mario Musolesi.
La chimera di un’improvvisa ricchezza non abbaglia la popolazione. La cifra esorbitante (forse troppo alta per essere ritenuta vera) e il discredito nel quale vive il fascismo repubblicano diventano elementi che permettono a «Lupo» e alla sua brigata di continuare ad ottenere la fiducia della maggioranza della popolazione.
In un’area piuttosto vasta di movimento non tutto può essere adeguatamente controllato. Se è già difficile smascherare le spie che entrano nella formazione, può essere ancora più arduo individuare le spie mimetizzate fra la popolazione.
I partigiani quasi sempre danno per scontato che chi offre un aiuto sia dalla loro parte, ma in una guerra che cela continue insidie non può essere sempre così. Nella trappola possono cadere anche i partigiani più esperti, come accadde nel giugno 1944 a due fondatori della brigata, Giovanni Rossi e Alfonso Ventura.
Nella zona di Sibano un contadino, attiratili in casa per offrire loro da mangiare, ha buon gioco nel farli prigionieri (i partigiani si erano rilassati appoggiando i mitra alla parete di casa). Nel momento in cui il contadino conduce i partigiani presso il comando tedesco, altri contadini si rendono conto della situazione e riescono ad avvisare gli uomini della Stella Rossa che intervengono a liberare i loro compagni.
La presenza di spie sul territorio si avverte in altri casi.
Ad esempio nella segnalazione del luogo di convalescenza del partigiano Francesco Calzolari che, prelevato dai tedeschi, venne torturato e impiccato. Un destino analogo lo subisce il partigiano Giovanni Musolesi che, tornato a casa in località Acquafresca, trascorre 5 notti all’addiaccio e viene prelevato la sesta notte assieme alla sua famiglia in seguito a una delazione.
Allo stesso modo l’uccisione di Ettore Ventura «Aeroplano» è propiziata dalla spiata di una persona di Monzuno. Nella formazione, sino all’ultimo, rimane la paura delle spie.
Il coinvolgimento dei contadini avviene anche per altri tipi di operazioni e richiede un ruolo più attivo e rischioso da parte dei civili che partecipano.
Il partigiano Guido Tordi sostiene che era frequente l’impiego di guide contadine per effettuare con più sicurezza gli spostamenti. Le guide locali agivano di notte perché avveniva nell’oscurità la maggior parte dei movimenti degli uomini armati.
Le guide avevano il compito di condurre i partigiani per sentieri sicuri cercando di evitare gli insediamenti tedeschi. L’aiuto della popolazione ai partigiani segue spesso la linea di un duplice, reciproco interesse.
Ci sono circostanze nelle quali i civili si rendono conto che collaborare con i partigiani contribuisce a salvaguardare la propria sicurezza, come nel caso dell’attentato di metà maggio a un mezzo anfibio tedesco quando perirono tutti gli occupanti. In questa circostanza i partigiani vengono aiutati da diversi contadini a scavare una buca per seppellire il mezzo anfibio e i soldati.
In tutte queste occasioni l’obiettivo è quello di ridurre il rischio di scontri a fuoco tra partigiani e tedeschi con vantaggi per l’incolumità degli uomini armati e della popolazione.
Nell’ambito di questo comune interesse, le case coloniche poste a ridosso degli insediamenti partigiani vengono protette dagli uomini della Stella Rossa; talvolta poche raffiche di mitra servono a dissuadere i tedeschi dal compiere razzie in alcune stalle e casolari.
Tra i civili non mancava chi sosteneva che bisognava fare la guerra ai fascisti per evitare le rappresaglie tedesche. Appariva chiaro che «se ammazzavano i fascisti, i tedeschi non se ne importavano mica niente». Occorre poi considerare quelle circostanze nelle quali la strategia bellica impedisce ai partigiani di scegliere se uccidere un fascista o un tedesco.
Il partigiano della Stella Rossa, Franco Fontana, afferma che «i tedeschi li abbiamo sempre lasciati andare, noi ce l’avevamo coi fascisti». Per quanto ciò non sia sempre stato vero, queste parole riportano quantomeno un indirizzo che la brigata si era voluta dare.
Pur cercando di evitare inutili uccisioni di tedeschi c’è però una casistica di guerra che impedisce di risparmiare le vite del nemico, pena un elevato rischio per la propria sopravvivenza. Ci sono stati soldati tedeschi, fatti prigionieri dalla brigata, ai quali è stata risparmiata la vita, ma si è poi incorso nella successiva vendetta da parte di questi.
Si è sparato contro i tedeschi quando sono state sorprese dai partigiani pattuglie intente a effettuare rilievi topografici; anche in questo caso l’uso delle armi è stato necessario per salvaguardare la sicurezza e la sopravvivenza della formazione.
Ancora negli ultimi tempi di attività della formazione, si osserva nei partigiani una grande attenzione verso quelle azioni che possono danneggiare la popolazione. Si evita che i tedeschi possano razziare il bestiame, si rinuncia ad attaccare - come a Montovolo il 25 agosto 1944 - per non causare perdite alla popolazione civile o ancora - nello stesso giorno - si evita di sopprimere un tedesco disarmato a Gardelletta per non incorrere nella già minacciata distruzione del paese.
I tedeschi guardano ai civili come a una forza da utilizzare a fini bellici. Coloro che vengono deportati appartengono solo in misura minore alla schiera del nemico in armi.
Le necessità dell’industria bellica del Reich impone sempre la presenza di nuova manodopera che viene rastrellata nelle zone occupate. Le operazioni antipartigiane «tenere sgombre da bande le retrovie» possono essere un semplice pretesto per cercare manodopera da impiegare in Germania, spesso nelle fabbriche di armamenti, o nelle zone del fronte.
L’azione tedesca spaventa indubbiamente la popolazione, ma gli eccessi di brutalità, con rastrellamenti indiscriminati senza badare all’età e la morte immediata per chi opponeva resistenza, portano larga parte della popolazione civile non soltanto a inasprire l’odio antitedesco, ma a vedere le formazioni partigiane non soltanto come una fonte di pericolo, ma come il proprio esercito che combatte per mandare via i tedeschi.
L’ultimo segnale di attaccamento della popolazione civile alla brigata, avviene nei giorni precedenti l’eccidio quando le postazioni della Stella Rossa sono meta dei civili che cercano rifugio per scampare al preannunciato grande rastrellamento tedesco.
La brigata non aveva la possibilità di accogliere questo flusso di uomini che entrava nelle sue posizioni.
I civili toglievano agilità alla brigata rischiando di renderne più macchinosi i movimenti, oltretutto la protezione che la popolazione ricercava non poteva essere garantita dai partigiani.
Con i primi giorni del settembre 1944 la Stella Rossa completa il rientro da Pietramala e si reinsedia nella zona d’origine di Monte Sole. E’ un ritorno diverso perché i componenti della brigata hanno la precisa sensazione che la guerra sia prossima alla conclusione.
La brigata vive questo mese tra speranze e nuove tensioni perché si ripresenta in termini diversi il dilemma che ha accompagnato buona parte della vita della Stella Rossa: andare o rimanere?
Questa volta la direzione alternativa sarebbe la marcia verso Bologna, se si dovessero seguire le direttive del Cumer, al fine di liberare, congiuntamente alle altre forze partigiane, la città.
Settembre si configura come un mese d’attesa liberazione e di combattimenti. Gli alleati stanno avanzando a un passo che pare incessante.
Alla vigilia dell’eccidio (29 settembre - 5 ottobre 1944) i partigiani potevano scorgere le avanguardie delle truppe alleate con i canocchiali essendo oramai a poco meno di 2 chilometri di distanza in linea d’aria e a mezz’ora di bicicletta dalle postazioni più vicine.
Nel mese di settembre la strada provinciale è attraversata da colonne di reparti tedeschi in ritirata, un esodo verso nord che con il trascorrere dei giorni diventa sempre più disordinato.
Nei partigiani il desiderio di potere finalmente cessare le ostilità, sembra diventi un’autoconvincimento («ha fatto strada in molti partigiani la convinzione che la guerra sia terminata, che ogni pericolo per noi sia cessato») alla quale si accompagnano spossatezza e rilassamento.
In data 8 settembre 1944 «Lupo» invia un comunicato a tutti gli uomini della formazione stigmatizzando questi atteggiamenti e rammentando che il pericolo non è affatto cessato. Su questo punto i toni del comunicato sono preoccupati, ai tedeschi è riconosciuta una «forza di disperazione» che li rende ancora più pericolosi.
Il monito di Lupo è severo e involontariamente si tinge di triste presagio: «Bisogna ricordarsi che è un duello a morte che abbiamo, e vince chi vede per primo e per primo colpisce».
Nel settembre 1944 la formazione ha un numero inferiore di effettivi rispetto ai mesi di maggio e di luglio.
La scissione del battaglione di Sugano Melchiorri, ma soprattutto il peso dei due lunghi trasferimenti avevano creato depressione in diversi uomini, fiaccati dalla vita partigiana che quasi mai consente soste e licenze.
Secondo il rapporto inviato al Cumer sull’ultimo attacco subito dai tedeschi il 29 settembre la brigata inquadrava 420 uomini. Altre fonti restringono a 300 gli uomini addestrati e bene armati, una percentuale di partigiani risultava adirittura disarmata.
Considerando dai ruolini dell’Anpi un totale di 1325 partigiani appartenuti alla Stella Rossa (cifra da ritenere in leggero eccesso) si può comprendere come, al di là dei 226 uomini caduti durante la vita della brigata e del centinaio di effettivi allontanatisi per andare verso Bologna, gli abbandoni sono stati in misura sensibile e hanno lasciato un segno sulla brigata.
E’ questo uno dei riscontri più tangibili che mostrano la durezza di questa vita, vissuta quasi sempre come un limite estremo, considerando inoltre che, nella dislocazione della formazione, nemmeno un quarto degli uomini poteva contare su di un tetto.
La voce comune, abbastanza diffusa tra i partigiani di altre formazioni e tra i civili della zona, che attribuiva alla Stella Rossa un’armamento efficiente e buone scorte di munizioni, è stata il frutto dell’eco suscitata da alcuni episodi (gli aviolanci alleati di primavera, l’esibizione delle nuove armi di fronte ai civili), un contorno ben distante dalla realtà.
La brigata possedeva solo armi leggere, non tutti gli uomini erano armati di mitra, mentre i fucili erano quasi tutti nella versione del più leggero moschetto. Quanto alle munizioni, Musolesi dichiarò il 14 settembre al Cumer «che la scarsità delle stesse non mi consentono un’azione di fuoco della durata superiore alla mezza giornata», come si verificò, in linea di massima, in occasione dell’attacco tedesco del 29 settembre.
La questione del scendere a valle o rimanere, nell’attesa degli alleati, viene affrontata in un’assemblea generale della brigata.
Come in occasione della marcia di trasferimento a Pietramala, il comandante, dopo avere chiarito il proprio punto di vista, ha lasciato libertà agli uomini di scegliere tra le due strade, perdendo quel centinaio di effettivi convinti dall’idea di scendere subito verso Bologna.
La decisione di Musolesi di non partire, non è legata in questo caso al carattere di mera stanzialità degli uomini della brigata.
Certamente l’idea di potere difendere la gente della propria terra è una delle motivazioni che si può cogliere tra i partigiani della Stella Rossa ma non è la ragione principale che induce «Lupo» a rimanere a Monte Sole.
Il comandante valuta la permanenza nella zona d’origine in termini di strategia militare e di sicurezza per i suoi uomini.
La permanenza a Monte Sole in questo frangente è sentita dal comando come il momento culminante di tutta la storia della brigata: non si può lasciare la zona proprio quando questa diventa la prima linea di una grande battaglia e ciò è parte dell’impegno di lotta al nazifascismo che i responsabili della brigata avevano assunto all’inizio della loro scelta partigiana.
La discesa verso Bologna si presentava troppo rischiosa per la brigata. Nella marcia verso il capoluogo, la Stella Rossa avrebbe incontrato le ancora agguerrite e numerose truppe nazifasciste, senza potere contare su di un sicuro e preciso piano di collegamento con le altre brigate.
D’altro canto il Cumer non era nemmeno stato in grado di coprire la discesa con un adeguato munizionamento della formazione. Scendere in queste condizioni poteva significare andare in contro a una morte probabile, come testimonia l’amaro destino occorso a chi poi raggiunse la città.
Da un momento all’altro si attendono gli alleati e pertanto risulta più sicuro marciare con loro verso la città. Il generale Alexander aveva esortato il partigianato a rendere insicure le retrovie tedesche per favorire l’avanzata angloamericana, azione che la Stella Rossa intraprende e conduce sino all’ultimo con agguati a convogli tedeschi in ritirata e sequestro di armi e munizioni.
I partigiani non valutano il loro stazionamento nella zona di Monte Sole come pericoloso per loro e per la popolazione. Oramai la presenza partigiana risultava visibile e ben nota ai nazifascisti i quali però non erano presenti nella zona di Monte Sole.
La popolazione, attraversata da timori contrastanti (paura per i bombardamenti o cannoneggiamenti alleati, paura per una possibile scorribanda tedesca), viveva questi momenti con comprensibile apprensione.
Tanto i partigiani quanto i civili consideravano però abbastanza al sicuro donne, bambini, anziani e inabili essendosi sviluppata la violenza tedesca, sino a quel momento e in quella zona, sugli uomini ancora validi o in età di leva.
La vicenda dell’eccidio e dei giorni che lo precedettero, mostra l’impari difficoltà, per civili e partigiani, di interpretare i segnali visti e le voci circolanti.
Un elemento in più di incertezza giungeva dal rientro in brigata degli antifascisti infiltrati nel fascio, i «balilla», come gergalmente li appellavano i responsabili della Stella Rossa.
L’arrivo di questi uomini era conseguente all’idea dell’imminente liberazione, ma privava la brigata di una fonte di informazione certa. Tutto il resto non erano che voci contraddittorie da valutare. Ciò che si vedeva e ciò che si sapeva poteva essere letto in un modo o nell’altro.
E il caso della fuga verso Bologna dei fascisti di Marzabotto che poteva essere interpretato come il segnale di una più globale ritirata nazifascista oppure come una misura per evitare di rispondere del peso di grandi responsabilità, se questo spostamento veniva messo in relazione all’altra spirale di notizie che annunciava imminente un poderoso attacco tedesco.
I segnali di un definitivo abbandono tedesco dell’intera zona parevano forti: al 25 settembre non si vedevano tedeschi in giro, il reparto cecoslovacco insediato a Marzabotto era stato trasferito, si smontavano le linee telefoniche di campo, gli stessi soldati tedeschi dicevano: «domani qui Tommy... guerra finita».
Quello che però non convinceva appieno era la presenza, osservata alla notte dai contadini informatori della brigata, di tedeschi con il simbolo SS sull’elmo intenti a effettuare rilevamenti. Altre e diverse fonti sembravano confermare un attacco tedesco: un’impiegata della Rsi a Vergato Anna Colli - segretaria del noto fascista repubblicano Pietro Cristalli - informa don Tommasini il 26 settembre che i tedeschi stanno preparando un rastrellamento contro la brigata «utilizzando mezzi spropositati», notizia che il parroco riesce a far giungere in breve tempo a Musolesi.
Ricevute le allarmanti informazioni, i partigiani non attribuirono a queste sufficiente credito.
Musolesi si culla sull’invincibilità della formazione e nonostante gli evidenti problemi di armamento, ritiene di potere respingere un eventuale attacco tedesco, come avvenuto alla fine di maggio, quando gli aggressori erano stati superati con la strategia e la buona disposizione.
Inoltre Musolesi, a dispetto delle difficoltà di contatto e dell’inutile attesa, contava seriamente di potere ricevere aiuti, in armi o munizioni, dagli alleati che però non giunsero mai, come non arrivarono in soccorso i soldati angloamericani nel momento del bisogno, contrariamente a quanto, molto illusoriamente, si attendeva Musolesi.
Come una parte dei civili, anche i partigiani volevano pensare che i tedeschi, in ragione della stretta vicinanza dell’esercito alleato, non avessero nemmeno il tempo di attaccare con mezzi consistenti.
In ogni caso avvenivano tutti i giorni, seppure localizzati, scontri a fuoco dove l’inizio dell’offensiva nasceva ora da parte dell’uno ora da parte dell’altro.
Così Gino Berti, uno degli uomini che passa il messaggio di don Tommasini al comando, non rimane particolarmente colpito dalla notizia dell’attacco perché «tutti i giorni si può dire eravamo allora attaccati».
Il vicecomandante, Giovanni Rossi, fa notare che è «ben risaputo da chi è pratico di guerriglia, che sempre, si può dire quotidianamente, tali voci sorgono e circolano e se si facesse caso ad esse lo stato d’allarme sarebbe continuo, e che ben difficile è la cernita fra la notizia reale e l’allarmismo».
Sembra così che quasi ogni partigiano arrivi alla vigilia del 29 settembre con una propria convinzione sulla strategia nazifascista, ma ciò che più conta, è che nessuno degli uomini del comando, pur ritenendo possibile un attacco, abbia saputo prevedere la dimensione dell’offensiva tedesca.
Il fattore «sorpresa» è un motivo comune anche ad altre testimonianze partigiane che rende l’impatto dell’attacco tedesco ancora più devastante.
I fatti a posteriori attribuiscono una maggiore fetta di responsabilità agli uomini del comando (Musolesi e Rossi su tutti) perché costoro si erano lasciati andare ad atteggiamenti di rilassatezza che avevano impedito un’efficace vigilanza prima e un’organizzata reazione poi.
I tedeschi preparano così una vittoria schiacciante perché attaccano di sorpresa, possiedono un equipaggiamento in ogni parte superiore a quello partigiano (con mitra, mortai, lanciafiamme e cannoni), conducono l’offensiva con un numero di uomini mai impiegato prima, circa 1.500, che equivale a un rapporto effettivo di quasi quattro tedeschi per un partigiano.
I tedeschi avevano sopravalutato le forze partigiane, stimate circa in un migliaio, ritenendo armata anche quella parte di popolazione civile rifugiatasi all’interno delle posizioni controllate dalla Stella Rossa. Inoltre l’attacco viene sferrato da quattro compagnie indirizzate verso quattro posizioni dello schieramento partigiano, perfettamente conosciuto dagli aggressori e colpito direttamente, tant’è che subito la brigata viene tagliata in due parti.
Dinanzi alla portata di questo assalto che ha la ventura di sfruttare ogni tipo di possibile vantaggio, la Stella Rossa può poco. C’è la reazione partigiana immediata - frutto più di un istinto di sopravvivenza che di una strategia congegnata - di quelle compagnie investite dal fuoco, mentre l’allarme generale viene dato soltanto due ore dopo l’inizio dell’attacco tedesco.
E in questo frangente che l’assenza di «Lupo» dal comando pesa enormemente perché costringe la formazione a non agire come un insieme organico, ma viceversa si reagisce come gruppi sparsi che non potevano avere una lunga prospettiva di resistenza. E’ anche in conseguenza dell’assenza del comandante che si sbandano rapidamente due reparti della forza di 250 uomini.
Nel giro di poco tempo il rapporto tra attaccanti e difensori si raddoppia e diventa di 8 a 1. Tra i più tenaci resistenti gli uomini del 3° battaglione, la compagnia di russi comandata dal tenente Karaton, la piccola squadra impegnata a Cadotto e gli uomini di Alfonso Ventura che impegnano i tedeschi tra Ca’ di Genuino e le Scope.
Da una stima minima delle perdite, i tedeschi lasciano sul campo: un ufficiale, una ventina di soldati a cui vanno aggiunti 6 dispersi e una cifra fra i 30 e i 40 soldati feriti.
La resistenza partigiana si prolunga sino al sopraggiungere dell’oscurità del giorno 29. Per quanto siano risultate abbastanza limitate le perdite di uomini, la brigata aveva subìto un colpo mortale dall’attacco tedesco. Una sensazione di sconfitta, paura e disonentamento che aveva profondamente sfrangiato il corpo della formazione che da gruppo diventa un insieme di individui soli e disperati, tesi a cercare, con altri o per proprio conto, una possibile via d’uscita verso la sopravvivenza.
Così si spiegano le ultime accese liti verificatesi nella notte tra il 29 e il 30 settembre tra una minoranza di coloro che volevano continuare la lotta e la maggioranza che era invece decisa a raggiungere la salvezza tentando di oltrepassare le linee per congiungersi con gli angloamericani.
Dal 30 settembre in poi la vicenda della Stella Rossa diventa una storia di piccoli nuclei sbandati. E l’ultimo gruppo di 200 uomini armati, quello più numeroso, che consuma le ultime contraddizioni della vicenda finale.
Questo drappello raduna i commissari politici comunisti e ciò che resta del comando: il comandante dei carabinieri tenente Giovanni Saliva «Gianni», il tenente Giuseppe Castrignano «Peppino», Celso Menini «Celso» e il tenente Giuliano Tarozzi «Walter», questi ultimi due comandanti del primo e del secondo battaglione.
Nel giro di poco tempo si eclissano gli «ufficiali» (Saliva e Castrignano prima, Menini poi) per loro conto «dissero di allontanarsi un momento, non li vedemmo più». Venuto meno il senso di responsabilità degli uomini del comando (l’ultimo ad allontanarsi per proprio conto è il «tenente Walter» che dal rapporto di R. risulta che abbia asportato 46.000 lire del fondo cassa i partigiani rimangono sotto la responsabilità dei commissari politici.
L’ultimo tentativo di assumere il comando e di ridare ordine alla brigata, lo compie il commissario Ferruccio Magnani «Giacomo» che impartisce la direttiva di portarsi oltre il Reno, scavalcando la zona di Marzabotto, per poi continuare la lotta.
A questa direttiva aderirono 18 uomini su 150. Lo scoraggiamento, la sfiducia e l’anarchia si erano impadronite degli uomini. La dolorosa defezione degli ufficiali aveva stroncato ogni possibilità di controllo su di essi.
Per quanto le cifre sugli uomini e gli armamenti, le strategie e il rilassamento dei responsabili del comando della Stella Rossa siano segnali inequivocabili per spiegare la disfatta subita, il rapporto finale di R. adombra una ragione più profonda e meno contingente chiudendosi con questa allusiva affermazione:
Accenno che altri fattori, non così immediati come quelli citati, hanno determinato il collasso del 29/9/944. Di questi verrà tratta da altri più ampia relazione.
Nessuna ulteriore relazione ha però fatto seguito a questo rapporto che rimane l’unico coevo di fonte interna alla brigata sulla cronaca dell’attacco e l’ultimo rapporto sulla Stella Rossa.
Gli altri fattori che hanno determinato il collasso sono probabilmente di ordine organizzativo, disciplinare e morale. L’impressione è che i rapporti fra gli uomini della brigata siano a lungo rimasti tesi, senza migliorare negli ultimi giorni.
I continui spostamenti nell’organigramma della formazione non davano stabilità e non erano accettati sempre di buon grado dagli uomini. La crescita della formazione non poteva essere assorbita all’interno della mentalità del nucleo originale e le strutture che si dà la brigata sono percepite dagli autoctoni come qualcosa di estraneo.
E' illuminante l’affermazione del partigiano monzunese Ivo Teglia nel momento in cui sostiene che «i rapporti erano buoni poi venne la burocratizzazione».
L’azione nazifascista del 29 settembre 1944 va al di là, nelle proporzioni, della già spietata condotta bellica tenuta sino a quel momento in Italia.
L’operazione «Stella Rossa» potrebbe apparire come l’attacco di un esercito contro una brigata partigiana. Solo in minima parte si verificò questo.
L’obiettivo tedesco era la conquista di Monte Sole - tentata sin dal marzo 1944 - altura strategica per il controllo della linea Gotica.
L’attacco alla Stella Rossa non è che il semplice contorno di un’azione più massiccia e brutale.
I tedeschi si pongono come obiettivo quello di rendere sgombre le retrovie del fronte e lo fanno debellando la Stella Rossa, sopprimendo tutti i civili che incontrano lungo la loro strada e incendiando tutte le abitazioni. L’uccisione dei civili è spesso antecedente all’attacco contro la Stella Rossa e si consuma in diverse aree non occupate dai partigiani.
Si voleva in questo modo impedire ai partigiani di potere ritornare in quella zona - come accaduto in occasione di altri precedenti attacchi -, nel caso in cui la brigata fosse sopravvissuta all’offensiva.
I nazifascisti intendono creare il vuoto e lo fanno togliendo ogni forma di vita in quell’arcipelago montano. L’affidamento a Walter Reder di questa operazione è già indicativo dei modi con i quali si sarebbe svolta l’azione.
Non è un caso che dall’8 agosto 1944 alle truppe di Reder viene affidato questo compito di «pulizia», ovvero i massacri di popolazione civile in zone nevralgiche del fronte in Toscana ed Emilia Romagna. Ovunque si trovino questi reparti della l6.a divisione SS di Reder si verificano gravi massacri di civili.
Accade in 6 luoghi della Toscana a cominciare da San t’Anna di Stazzema nel lucchese, il 12 agosto, dove vengono uccise 560 persone, dal 19 agosto al 26 avvengono le 3 stragi nelle frazioni del comune di Fivizzano nella provincia di Massa Carrara costate la vita a 360 persone.
La provincia di Massa Carrara nel mese di settembre viene toccata da altre due stragi a Bergiola (70 morti) e quello sulla sponda destra del fiume Frigido (circa 200 morti). Soltanto il 27 settembre 1944 il reparto di Reder lambisce l’area della Stella Rossa trovandosi tra Rioveggio e Vado.
E’ questa, probabilmente, una delle ragioni che aiuta a comprendere il motivo dell’attacco a sorpresa addotto in diverse testimonianze partigiane e di un’iniziale mancata percezione del pericolo di morte da parte della popolazione civile che non conosceva i sistemi usati da questo reparto, dato che nei precedenti rastrellamenti i tedeschi avevano rispettato donne e bambini.
Il reparto SS lasciò immediatamente la zona, una volta compiuta la strage, e ciò rese più difficile ai superstiti il riconoscimento dei responsabili.
Il procedere uguale e sincronico in diverse località, teatro della strage, con contemporanei incendi in frazioni diverse e la raccolta di civili allo scopo di ucciderli, è la più palese dimostrazione di come la strage fosse stata preordinata e non sia stata frutto della furia di singoli soldati.
Sono proprio le fiamme alte e le urla degli uomini e degli animali che offrono ai testimoni rimasti più decentrati i contorni scioccanti della strage.
Alcune testimonianze di comandanti di compagnia nazisti, allegate agli atti dell’istruttoria, confermano dei preventivi ordini impartiti da Reder che il capitano Paul Albers ricorda furono ascoltati con «grande ripugnanza» («mit grossem Widerwillem»).
Senza mezzi termini il soldato Wilhelm Kneisal della 2.a compagnia del 16° battaglione SS, disse che fu loro «ordinato di dare alle fiamme tutti i villaggi, di uccidere il bestiame e tutti i civili compresi donne e bambini».
Questo tipo di direttive erano il frutto delle disposizioni emanate nel luglio 1944 dal comandante delle truppe tedesche in Italia, Albert Kesselring che arrivò a permettere esplicitamente ogni tipo di violenza anche quelle contro i civili.
La giustificazione di maniera che i nazisti danno a questa azione è che anche i civili sono partigiani.
Dai documenti militari tedeschi sull’azione svolta si riferisce di «718 morti nemici tra cui 497 “banditi” e 221 “flancheggiatori”».
Posta l’estrema parzialità di queste classificazioni, (i partigiani effettivamente caduti non sono più di alcune decine) la condotta tedesca va al di là di ogni concepibile limite militare nel momento in cui si rivolge contro donne, anziani e bambini, gente disarmata che non poteva in alcun modo, in quel momento, attentare alla vita dei soldati.
Non si ricorre nemmeno alla pur brutale deportazione di massa, come avvenne per tutta la popolazione maschile a Putten in Olanda, non si fanno prigionieri: solo la morte segna incontrastata la fine di intere frazioni.
Se il massacro delle fosse Ardeatine si può spiegare nell’arbitrario codice tedesco di rappresaglia (10 italiani uccisi per ogni tedesco morto), la strage di Marzabotto deborda dagli stessi limiti della rappresaglia mostrando che non esiste alcun freno alla spaventosa orgia di morte che viene messa in atto.
E’ lo stesso ufficiale nazista Walter Reder, al comando del battaglione che eseguì il massacro, a dichiarare al processo che lo vide imputato che l’azione contro la Stella Rossa «non era una spedizione punitiva né un’azione di rappresaglia».
Dal 29 settembre al 5 ottobre vengono uccisi dai nazifascisti nei modi più crudeli 770 persone: è il massacro più grave compiuto dai tedeschi in Italia e il secondo in Europa.
La mano nazifascista ha ucciso 216 bambini, fra questi alcuni neonati, 316 donne e 142 persone sopra i sessanta anni. Queste 674 vittime appartengono quasi tutte all’eccidio di Monte Sole. Fra i 770 caduti anche i tre giovani parroci di San Nicolò, di Sperticano e di San Martino (don Casagrande, don Fornasini, don Marchioni)
«Kesselring aveva tolto la fiducia ai preti; e dato carta bianca alle SS». Altri tre religiosi trovarono la morte nei giorni dell’eccidio: padre Martino Cappelli, don Elia Comini e padre Mario Ruggeri.
L’indagine analitica sulla strage ha messo in evidenza che l’eccidio si è consumato in 115 luoghi tra «Chiese, cimiteri, piazzette, rustici contadini, modici locali di ritrovo, strade, mulattiere...». Gran parte delle frazioni colpite dalla strage sono rimaste deserte, senza riuscire più a rinascere.