Romagnoli Adelaide, «Carla», da Luigi e Celestina Quarantotto; n. il 20/6/1925 a Budrio. Nel 1943 residente a Bologna. Licenza elementare. Operaia. Militò nel dist di Castenaso della 7a brg GAP Gianni Garibaldi e operò a Castenaso e Bologna con funzione di staffetta. Addetta alla distribuzione della stampa clandestina nel comune e al trasporto delle armi per il dist. Riconosciuta partigiana, con il grado di tenente, dall'1/1/44 alla Liberazione. Testimonianza in RB5. [O]
Abbiamo incontrato Adele Romagnoli, una donna che ha fatto la Resistenza, fa parte del direttivo Provinciale dell'A.N.P.I. e ancora adesso continua a mettere tutta se stessa nelle cose in cui crede.
Mio padre per aiutare la famiglia, da giovane scelse di arruolarsi nei carabinieri, durante il suo servizio militare partecipò alla guerra del 1915-1918 nel corso della quale ottenne due riconoscimenti per il suo valore. Due medaglie di bronzo. Provenendo da una famiglia con idee antifasciste non prese mai la tessera del partito. Ovviamente non avendo la tessera non riuscì a trovare da lavorare, anche se mi ricordo che la mattina lo vedevo partire da casa con la carretta e tornava alla sera molte volte senza aver trovato niente da fare. Il suo rifiuto del P.N.F. era tale che non espose mai i suoi attestati al valore, perché essendogli stati assegnati dopo la guerra nelle pergamene c'erano i fasci littorio, questi attestati con le medaglie li ho consegnati in seguito all'Istituto Storico. A scuola, ricordo, che venivo sgridata dalla maestra perché non avevo la divisa da piccola italiana, ma mio padre non la comprò mai con la scusa di non avere i soldi per queste cose. Insomma nonostante che fosse un ex carabiniere decorato, non riuscì a trovare lavoro, perché non aveva la tessera. Così nel 1936 decise di andare a lavorare alla polveriera di Marano dove fu assunto come operaio e riuscì in seguito a diventare una guardia.
Io da bambina, una volta finite le elementari, venni a Bologna con la famiglia, e cominciai a lavorare prima come orlatrice poi dopo i 14 anni entrai in fabbrica.
In fabbrica, non era come oggi, esisteva solo il sindacato fascista e ovviamente non difendeva gli interessi dei lavoratori, mi ricordo di un episodio quando chiedemmo un aumento di stipendio di due soldi, che equivalevano a 10 centesimi di allora. Il padrone organizzò un'assemblea con il sindacato una sera. Il sindacalista che venne ci fece un lungo discorso rimproverandoci di questa richiesta che poteva essere considerata come uno sciopero contro il padrone. Una mia collega più anziana, mentre parlava il sindacalista mi disse: “Vuoi scommettere che domani nell'ordine c'è un paio di scarpe per il sindacalista?”. Infatti il giorno dopo nell'ordine di produzione c'era il suo nome.
L'8 settembre ero in fabbrica lavoravo preso il calzaturificio Pancaldi, cominciammo a fare delle riunioni che portarono all'occupazione della fabbrica. Mio padre mi disse di seguire il sindacalista che avevamo nella commissione interna, era un vecchio antifascista. Si fece una settimana di sciopero e di presidio fuori dalla fabbrica, perché i militari che avevano mandato a controllarci ci dissero che se entravamo erano costretti a rinchiuderci all'interno della fabbrica. In seguito la fabbrica si trasferì a Como, il padrone venne a chiedermi di seguirlo perché io ero una brava tagliatrice. Il babbo mi lasciò decidere cosa fare, lui ha sempre lasciato a me e a mio fratello fare le nostre scelte, non ci ha mai imposto niente, così visto che mi ero già legata alla Resistenza decisi di non andarci.
Io e mio fratello siamo entrati nella Resistenza perché abbiamo avuto i contatti giusti, io vi entrai partecipando con altre ragazze a una riunione in una casa di un contadino nostro vicino.
Il mio compito era fare la staffetta, distribuivo la stampa clandestina e portavo gli ordini al comando, una volta mi fecero fare la prova con delle armi ma non sapendole usare continuai a portare documenti e stampa.
La diffusione della stampa clandestina era la distribuzione dei giornali, come L'Unità che non era un giornale come oggi, ma aveva la dimensione di un volantino, mi consegnavano un pacchetto che dovevo portare ad un'altra persona che a sua volta o li distribuiva nei mercati o li consegnava ad un'altra staffetta. Le comunicazioni da consegnare al comando erano invece dei bigliettini, che arrotolavo e infilavo nel manubrio della bicicletta dopo che vi avevo tolto le manopole, così se venivo fermata e perquisita era difficile che venissero trovati, ma il più delle volte erano comunicazioni verbali.
Il mio lavoro di staffetta mi portava a frequentare spesso dei ragazzi e capitò che alcune vicine riferirono a mia madre che mi vedevano con ragazzi sempre diversi e gli chiesero se fossi diventata una donna dai “facili costumi”.
Mia madre, che aveva intuito il mio impegno, fortunatamente mi avvisò così comunicai ai compagni che sarebbe stato opportuno cambiare il posto dove incontrarci in modo da non destare sospetti visto che nel palazzo vi vivevano anche dei tedeschi e c'era il pericolo che mi seguissero.Con il Gruppo di Difesa della Donne lavorai marginalmente, organizzammo una riunione con le donne della zona, ma molte avevano paura ad impegnarsi in prima persona così scelsero di aiutare i partigiani in altro modo facendo calzettoni e maglie da mandare in montagna.
Dopo il 1943 nella polveriera dove lavorava mio padre il comandante divenne un maresciallo tedesco di nome Müller. Questo maresciallo collaborò con la Resistenza nascondendo partigiani e fornendo documenti.
Mio padre mi raccontava che quando arrivavano i fascisti per perquisire la polveriera alla ricerca dei partigiani nascosti, lui si opponeva sempre. In questo modo nessun fascista ha mai messo piede nella polveriera. Si dimostrò una persona fidata anche quando nel gennaio del 1945 mio padre, in seguito ad una spiata fu arrestato. Successe quando mi assegnarono il compito di consegnare due pistole, ma all'ultimo momento dal comando giunse il contrordine. Per sicurezza nascondemmo le pistole in un capanno vicino a casa, ma qualcuno fece la spia e i gendarmi tedeschi trovandole arrestarono mio padre. Provammo a dire che essendo vicino alla strada chiunque poteva aver nascosto le armi nel capanno, ma questi non sentirono ragione e mio padre fu internato a S. Chiara.
Quando andai dal maresciallo per avvisarlo che mio padre era stato arrestato non gli dissi che la gendarmeria aveva trovato delle armi, ma la seconda volta che vi tornai mi rimproverò per non averlo avvertito del ritrovamento delle pistole e aggiunse che essendo mio padre una guardia giurata gli voleva fare il permesso di portare le armi anche fuori dalla polveriera. Mio padre si era rifiutato ma lui il permesso glielo avrebbe fatto lo stesso. Poi mi tranquillizzò dicendo che i sarebbe interessato per fare uscire mio padre dalla prigione, anche se era stato arrestato dalla Gendarmeria tedesca e avrebbe dovuto subire un interrogatorio. Infatti dopo otto giorni mio padre fu scarcerato. Se non fosse stato per il suo interessamento non so cosa gli sarebbe potuto succedere, forse sarebbe finito come un ragazzo che abitava vicino a noi che fu deportato alla Risiera di San Sabba.
Il maresciallo si trasferì seguendo il fronte e di lui non abbiamo più saputo niente, nonostante l'aiuto che diede alla nostra famiglia e ai partigiani fornendo come nel caso di mio fratello (Nota di chi scrive Romagnoli Dino, «Pantera», da Luigi e Celestina Quarantotto; n. il 19/12/1927 a Budrio. Nel 1943 residente a Bologna. Licenza elementare. Meccanico. Militò nel dist di Medicina della 7a brg GAP Gianni Garibaldi con funzione di capo nucleo. Mentre era con altri partigiani accasermato in una casa disabitata di via Scandellara (Bologna), in attesa di entrare in azione, fu sorpreso dallo scoppio improvviso delle munizioni e morì (con altri 12) il 18/4/1945. Riconosciuto partigiano dall’1/6/44 al 18/4/45. Il suo nome è stato dato ad una scuola elementare di Bologna.) e di un altro ragazzo dei documenti regolari .
La Resistenza era legata al territorio, senza questo legame non sarebbe esistita e non sarebbe durata fino alla Liberazione. I contadini hanno dato un grande contributo al movimento di liberazione, ognuno ha dato secondo la sua possibilità, c'era chi rischiava in prima persona nascondendo i partigiani nelle case o nelle stalle, chi invece contribuiva fornendo viveri, abbigliamento o altri generi. C'era un contadino nostro vicino che con mio padre seppelliva delle damigiane di grano la notte e questo grano serviva sia a lui che ai partigiani.
Quell'anno, sia con la spigolatura sia con quello che avevamo raccolto attraverso le donazioni, arrivammo a due quintali di grano. Per macinarlo eravamo in contatto con il mugnaio del Gomito, che ci avvisava sempre dei movimenti dei tedeschi in modo da andare a macinare il grano senza problemi. Un'altra figura sottovalutata è stata la sdaura (casalinga) è grazie a lei che arrivavano i viveri o l'acqua ai partigiani nascosti nei campi. Una famiglia che ricordo è la famiglia Bentivogli, erano dei nostri vicini, che mi presero in casa loro dopo l'arresto di mio padre. La famiglia Bentivogli ha data molto alla causa, rischiando in prima persona, nella loro casa vi furono molte riunioni e nella stalla nascosero molte volte dei partigiani, nonostante nelle vicinanze vi abitassero dei tedeschi.
Sicuramente la donna nella Resistenza ha avuto un ruolo pari a quello degli uomini, la scelta di campo non fu obbligata per evitare l'arruolamento nella R.S.I. o per non andare a lavorare nella TOD. La scelta di una donna fu sicuramente più libera, più meditata. Il ruolo femminile coprì tutti gli aspetti, dalle combattenti, alle staffette e chi contribuiva alla distribuzione dei viveri e materiale. La Resistenza fu un periodo di uguaglianza fra uomini e donne e si può dire che anticipò per breve tempo quello che si sarebbe in seguito verificato con la lotta delle femministe degli anni 70. Nel nostro quartiere vi sono state molte donne che contribuirono alla lotta di liberazione, a che non sono state riconosciute o sono state dimenticate. Lester Capponi, Maria Bernini che dovette scappare con il marito in Francia e tornarono dopo la Liberazione, le sorelle Baroncini, Marta Morotti e tante altre.
Donne dimenticate e il loro contributo non fu mai valorizzato. Anche nelle ricostruzioni degli avvenimenti ci sono discordanze con quello avvenuto nella realtà, come nel filmato che rievoca la battaglia di Porta Lame. I primi a uscire non è come riportato. Fu il gruppo di Medicina. Nel filmato girato ai giorni nostri non rende l'idea di come era ridotta la città dopo i bombardamenti, ci sono immagini del periodo e forse sarebbe stato meglio inserirle nel filmato. Nel libro dove è riportato l'avvenimento parla dell'abbondante pranzo fatto dai partigiani al loro arrivo lamentando però la mancanza di un secondo, ma sembra una bella cosa, mentre la gente moriva di fame lamentarsi della mancanza di un secondo? La gente aveva la tessera per mangiare e se si voleva qualcosa al di fuori del razionamento dovevi rivolgerti al mercato nero, avevamo il “pane del negus” così chiamato perché fatto con i vinaccioli e il suo colore era nero e si comprava al mercato nero. Per questo dico di non falsare la storia, vivevamo tutti nella miseria.
Molte sono le persone che hanno fatto, rischiando la vita senza combattere, per la Resistenza, e che in seguito sono state dimenticate, come il meccanico che c'era nelle vicinanze dell'ospedale S.Orsola. Lui era padre di due staffette e la sua officina è servita come punto d'incontro, scambio dei rapporti del comando e punto di arruolamento. Lo stesso maresciallo Müller sarebbe stato giusto ricordalo e quando vado nelle scuole a parlare con i ragazzi sottolineo questa cosa, non tutti i tedeschi erano cattivi, non bisogna mai fare di tutta un'erba un fascio. Qualche tedesco buono c'era, erano rari ed è giusto ricordarli.
Quando combattevo combattevo perché tutti potessero accedere all'istruzione, io purtroppo ho fatto la voglia di studiare non avendone la possibilità. Subito dopo la guerra, nel nostro quartier c'era un rapporto umano che adesso non c'è più. La delusione c'è l'ho adesso che vedo disinteresse e c'è sempre meno voglia di fare incontri e di parlare.