Sono Borghi Gino. Sono nato a Ravarino in provincia di Modena nell’anno 1915, il 12 Novembre.
Incomincio dalla mia infanzia nei primi anni 20 (1920).
Abitavo a Canaletto, una frazione del Comune di Ravarino; detta località i fascisti la chiamavano “PICCOLA RUSSIA”, data la ribellione dei suoi abitanti al regime fascista.
In questa località vi erano spesso scorribande di fascisti che arrivavano con dei camion ed erano armati di rivoltella e manganelli, alla ricerca dei cosiddetti SOVVERSIVI; correvano dietro a chiunque, facendo nascere delle serie lotte e noi bimbi eravamo terrorizzati. Sono episodi che sono rimasti impressi per sempre nella nostra mente. A me personalmente è rimasto il ricordo di un gruppo di fascisti che aggredirono, davanti a casa sua, un uomo con una bimba in braccio. Cominciarono a bastonarlo. La bimba gli cadde in terra e lui scappò via. Mentre correva gli spararono dei colpi di rivoltella. Non lo colpirono e fece in tempo a nascondersi in un campo di canapa.
Mio padre Giuseppe era molto ricercato perchè era stato sindaco del paese ed anche presidente di una Cooperativa edile ed esponente del Partito Socialista. Una sera i fascisti invasero la nostra casa e lo cercarono dappertutto. Andarono anche in cantina e videro un tino dell’uva capovolto. Credendo che mio padre fosse lì sotto, spararono diversi colpi di rivoltella alla presenza di mia madre e di noi figli. Io presi una paura fortissima che mi colpì la favella. Ne ho risentito per parecchi anni prima di tornare quasi alla normalità.
Dal 1924 in poi le scorribande dei fascisti e delle guardie regie diminuirono, ma la pressione politica rimase sempre uguale.
Con l’assassinio di Matteotti per mio padre e per tutta la famiglia iniziò un vero calvario.
In quel periodo mio padre lavorava a Modena, distante da noi circa 16 km. Andava via di casa al mattino in bicicletta e tornava alla sera.
Una sera tornò con un pacco di giornali e, la stessa sera, vennero a casa nostra dei compagni che li presero quasi tutti per distribuirli e fare propaganda sul delitto Matteotti.
In casa mia ne rimase qualche copia che mio padre nascose in un cassetto del comò. Io mi divertivo a guardarli. Si chiamava “FOTOGIORNALE”. Riportava in prima pagina la foto di Matteotti ed all’interno altre fotografie degli assassini e dei mandanti di quel delitto.
Dopo qualche tempo arrivarono a casa nostra due carabinieri; fecero una perquisizione, trovarono i giornali e li presero con sé. Mio padre fu convocato in caserma e detenuto per un certo periodo di tempo. Lo liberarono poi, ma con l’obbligo di presentarsi ogni settimana al comando dei carabinieri.
Questa situazione andò avanti fino al mese di maggio del 1927; in quel mese vi fu la inaugurazione del Littoriale, cioè lo stadio di Bologna, alla presenza del re e di Mussolini.
Per misura di sicurezza misero in galera un certo numero di cosiddetti sovversivi, fra cui anche mio padre, sebbene all’epoca abitassimo a trenta chilometri da Bologna. Furono prelevati 10 giorni prima e liberati 10 giorni dopo.
In quel periodo a casa eravamo soli: la mamma e noi tre bambini. I miei genitori sapevano che in quel periodo era in corso la pratica per lo sfratto dalla casa in cui abitavamo. Lo sfratto venne proprio nel periodo in cui mio padre era detenuto. Misero tutta la roba in un magazzino e noi fummo ospitati dai nostri nonni.
Quando il babbo venne liberato eravamo senza casa; si diede da fare per trovare una casa nel comune di Crevalcore in provincia di Bologna. Io e le mie due sorelle avevamo già finito le scuole a Ravarino con il titolo di studio della quarta elementare.
In quel comune era il massimo titolo di studio che si potesse conseguire.
Nella nuova residenza la nostra situazione peggiorò; mio padre non trovava lavoro benché fosse un bravo muratore, perchè i fascisti sabotarono la cooperativa di cui mio padre era presidente. Avrebbe potuto trovare lavoro a Modena, ma la distanza era tale che in bicicletta non ce la faceva e mancava un servizio pubblico di trasporto.
Nella mia famiglia tutti, tranne il sottoscritto, sapevano fare le sporte di giunco; a quei tempi la gente le usava per fare la spesa per cui vi era una consistente richiesta. La mamma, quando non lavorava nei campi, le mie sorelle, di 16 e 14 anni, mio padre lavoravano tutti a fare sporte di giunco. Nel periodo estivo invece le mie sorelle andavano per 40 giorni a lavorare nelle risaie del Piemonte, assieme alle mondine di tante località dell’Italia.
La nostra casa si trovava in mezzo alla campagna distante circa un chilometro da Bolognina, una frazione del comune di Crevalcore dove io all’età di dodici anni trovai lavoro da un fabbro, dove riparavano anche le macchine agricole ed io, appassionato di meccanica, mi trovavo a mio agio. Però a quei tempi per chi lavorava come apprendista non si parlava neppure di paga. Accettai questa condizione, altrimenti si doveva fare il manovale con i muratori oppure andare a lavorare nei campi quando c’era lavoro.
Dopo due o tre anni, mio padre, stanco di questa situazione di miseria decise di andare a Terracina da un suo amico per trovare lavoro in quella zona del Lazio. Quella zona era molto rinomata; eravamo nel tempo delle GRANDI OPERE tanto propagandate dal regime fascista: si trattava della bonifica dell’Agro Pontino.
Mio padre, scarso di soldi per il viaggio, decise di andare in bicicletta, via Rimini, Falconara, Roma, dove la strada era pianeggiante. Partì e dopo qualche giorno ricevemmo una cartolina con i saluti da Roma; per un lungo periodo non sapemmo più nulla finché un giorno vennero i carabinieri a comunicarci che mio padre era stato arrestato ad Albano Laziale per motivi di sicurezza, dato che era un sovversivo.
Da quel momento non sapemmo più nulla; ma dopo tre mesi riuscì a venire a casa e lui stesso ci raccontò tutta la tragedia di quel viaggio.
Era rimasto per qualche tempo in carcere a Roma, poi era stato trasferito a Firenze e poi a Bologna: Alla fine fu rilasciato a e ritornò a casa senza la bicicletta.
Era partito con tanta speranza, ma ritornò con tanta delusione. In noi rimase la rassegnazione di tirare avanti come avevamo fatto prima.
Vedendoci in quelle condizioni, mio padre era diventato un uomo avvilito; in famiglia non vi era dialogo ed allegria e nessuna prospettiva si presentava all’orizzonte.
Io personalmente ero soddisfatto perchè lavoravo e la bottega da fabbro, gradualmente si trasformava in officina; imparai a lavorare al tornio ed era la cosa che più desideravo perché con questa macchina si possono fare tanti pezzi particolari per riparare e costruire altre macchine.
La mia famiglia, come tante altre, tirava avanti con la speranza che qualcosa potesse cambiare, invece si andava verso il peggio, perchè il governo di Mussolini si stava organizzando per le sue future conquiste. Iniziò così, in questo periodo, una forte manovra per portare il popolo verso una psicosi militarista.
Si cominciarono a vedere i bambini piccoli in divisa da BALILLA e poi, proseguendo nell’età, AVANGUARDISTI e poi GIOVANI FASCISTI; questi ultimi in divisa da soldato, col fazzoletto rosso e giallo al collo e con un fucile a baionetta. E tutti facevano addestramento militare.
Tutti i giovani all’età di 18 anni erano obbligati a fare il premilitare, ove, anche qui, facevano addestramento alle armi.
Benché non fosse a me gradito, vi andavo ugualmente alla domenica mattina, frequentando tutto il periodo perché ciò dava la possibilità, a chi era unico figlio maschio, di ridurre il servizio militare di sei mesi, rispetto ai 18 previsti.
Era già da qualche anno che lavoravo, avevo già una buona abilità nel mio mestiere e così mi fu assegnato un modesto stipendio. Benché fosse poca cosa, aiutavo la mia famiglia e la riduzione del servizio militare sarebbe stato un bel sollievo per tutti.
Nel 1934, all’età di 19 anni, mi arrivò l’avviso di andare alla visita per il servizio militare. Malgrado avessi la vista un po’ debole, fui dichiarato idoneo.
Essendo stato fatto idoneo al servizio militare, mi recai dal sig. Pederzini, che era un capitano dell’esercito in pensione, responsabile del corso premilitare di Crevalcore. Io avevo frequentato tutto il corso e chiedevo un certificato che dichiarasse la mia presenza in detto corso. Egli mi chiese le mie generalità. Io dissi: Borghi Gino. Mi chiese chi era mio padre ed io risposi Borghi Giuseppe. Egli guardò il suo registro e con voce autoritaria mi disse: “mi risulta che tu non hai fatto questo corso e non posso rilasciarti nessun documento”. Io risposi soltanto: “Ho capito” e me ne andai molto amareggiato.
La situazione in famiglia si faceva sempre più pesante. Da un po’ di tempo si era sposata mia sorella, la più grande. Eravamo rimasti in quattro: io ed una sorella con mio padre e mia madre.
Stanchi di questa situazione si pensò di andare vicino ad una città, e si decise così di cercare a Bologna.
Nell’estate del 1935 trovammo casa vicino all’aeroporto, che a quell’epoca era solo militare ed in aperta campagna, non molto distante da Borgo Panigale.
In poco tempo trovai lavoro alle officine Sabiem, dove costruivamo ascensori ed altre produzioni meccaniche.
Per me non fu facile, prendendomi da una piccola officina, adattarmi ad una situazione molto più complicata. Avevo sì una certa pratica, ma mi mancava molto la cognizione tecnica; mi procurai qualche manuale di tecnica di officina; feci un corso serale alle scuole Fioravanti e con la mia volontà ed il desiderio di riuscire mi trovai presto alla pari con i miei colleghi coetanei.
Lavorando feci le prime esperienze sullo sfruttamento del lavoro. Si lavorava a cottimo ed avevamo una paga base. La mia era di 1.50 lire ad ora.
Ogni lavoro aveva una scheda del tempo di lavorazione; si timbrava l’inizio e la fine del lavoro. Se, per esempio la scheda prevedeva 10 ore per lo svolgimento di quel lavoro e tu lo facevi in 8 ore, ti venivano pagate due ore in più. Però la volta dopo quello stesso lavoro doveva essere fatto in 8 ore. Dovevi lavorare di più e non prendevi più niente di cottimo.
Nel 1936 fui chiamato al servizio militare e destinato alla scuola di cavalleria di Pinerolo. Avevamo il compito di addestrare i cavalli che venivano dalla Maremma. Era un servizio molto pericoloso e fu così che un giorno un cavallo mi diede un colpo di testa sulla fronte, creandomi un gran livido ed un gonfiore sull’occhio sinistro.
Mi mandarono all’ospedale militare di Torino ove fui ricoverato. Vi rimasi per 15 giorni e nel frattempo il capitano oculista, che era il primario, andò in ferie e fu sostituito da un professore borghese. Due giorni dopo mi chiamò per visitarmi e, leggendo la mia cartella, vide che ero di Bologna. Siccome io parlavo in Italiano, mi chiese di parlare in dialetto bolognese, visto che era di Bologna anche lui.
Mi chiese tante cose anche relative alla mia famiglia ed io gli spiegai la mia situazione. Mi visitò, mi fece l’esame della vista e poi mi disse: “ho la possibilità di mandarti in congedo per servizio sedentario; sarai chiamato solo in caso di guerra per servizi di caserma.
Lo ringraziai con le lacrime agli occhi, lo salutai e lui mi disse vai e stai tranquillo.
Tornai in caserma e dopo tre giorni feci ritorno a casa.
Avevo ripreso il mio posto e progredivo sul lavoro; ero soddisfatto e tranquillo.
Le condizioni della mia famiglia invece erano sempre le solite. Mio padre, come schedato politico, veniva sempre controllato dalla questura. Lavorava solo saltuariamente con un artigiano edile; mia sorella trovò lavoro in una casa di riposo per anziani, come aiuto in cucina e mia madre accudiva alle faccende di casa.
Sempre in quell’anno 1936, mentre infuriava la guerra di Spagna, essendo vicino all’aeroporto, vidi che costruivano un edificio, ove venne installata una stazione radio.
In questa stazione prestavano servizio 2 caporali dell’aeronautica: uno era di Parma e facemmo amicizia. Qualche volta andavo a trovarli anche in orario di servizio, dato che la radio era fuori dal recinto dell’aeroporto e non vi era alcun controllo.
Qualche sera gli aerei facevano esercitazione dalle ore 22 fino all’alba. Nel medesimo tempo una squadra di aerei partiva per andare a bombardare le città spagnole. Le esercitazioni avevano lo scopo di mascherare la missione e la stazione radio rimaneva in contatto con gli aerei in missione dal decollo fino al loro arrivo.
Non ancora finita questa missione vi erano truppe italiane che combattevano in Eritrea, in Etiopia, in Libia e più tardi in Albania. Era tutta una propaganda di guerra. Si vedeva gente entusiasta, specialmente i fascisti della “prima ora” e quelli della “Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.), tutti privilegiati che stavano bene, mentre la povera gente, soffocata dalla dittatura era passiva e silenziosa.
In tanti locali pubblici ed anche nei privati trovavi scritte come queste:
“TACI CHE IL NEMICO TI ASCOLTA”
“IL DUCE HA SEMPRE RAGIONE”
“SE LE CULLE SONO VUOTE LA NAZIONE INVECCHIA E DECADE”
e tante altre fesserie scritte anche sui muri delle case.
Altra cosa indegna era il recupero del ferro, tagliando le cancellate di recinzione. Chi aveva stoviglie ed altri oggetti di rame ed anche d’oro, le fedi nuziali era obbligato a donarli alla Patria.
Con le campagne di guerra descritte il guadagno più grande fu del Re che fu nominato Re d’Italia e di Albania ed Imperatore di Etiopia..
In quei tempi l’aeroporto era un grande cantiere; costruivano tre grandi hangar ed una caserma e mio padre vi trovò lavoro, ma dopo 8 o 10 giorni, gli agenti della questura andarono a trovarlo sul posto di lavoro e fu licenziato in tronco.
Eravamo già nel 1939, nel mese di aprile e la mia famiglia ebbe un grave lutto per la morte di mia madre, all’età di 46 anni.
Ci trovammo senza un soldo perchè il nostro reddito bastava a mala pena per mangiare. Per pagare le spese del funerale fui costretto a chiedere un prestito dove lavoravo e che mi venne trattenuto ratealmente sulla mia paga.
I lavori dell’aeroporto, oltre a ciò che ho descritto comportarono anche un allargamento del campo; la nostra casa doveva essere demolita. Abbiamo avuto 15 giorni di tempo per sgomberarla, senza compenso.
Trovammo una casa in via Prati di Caprara, dove ora c’è l’Ospedale Maggiore: per me fu una cosa utile perchè mi avvicinai al mio lavoro, ma il bilancio familiare divenne sempre più ristretto a causa dell’aumento dell’affitto.
Sul posto di lavoro avevo avuto un modesto aumento di paga, ma non tale da migliorare la nostra situazione.
Sebbene le mie capacità sul lavoro aumentassero, la nostra situazione famigliare rimaneva sempre incerta.
Pensai che fosse meglio cambiare azienda, tanto per fare nuove esperienze e, con questo, poter avere una paga più elevata. Feci allora domanda alla S.A.S.I.B. Si trattava di una azienda più moderna, dove facevano macchine automatiche per la manifattura dei tabacchi, scambi e segnaletica per le ferrovie, revisione dei motori a stella degli aerei militari.
Mi chiamarono per la dovuta prova e mi diedero un lavoro molto difficile, che mi riuscì benissimo sia come lavorazione che come tempo impiegato. E così fui assunto.
Cominciai a lavorare e mi fu assegnata una paga superiore a quella che prendevo prima e così cominciai a pensare al futuro. Da due anni ero fidanzato con una ragazza, Maria Stefanelli, che divenne poi mia moglie e con lei si pensava al nostro avvenire.
All’epoca era in vigore una legge che assegnava un premio di 3000 lire a chi si sposava prima dei 26 anni. Chi invece superava quell’età veniva sottoposto ad una tassa annuale, detta “tassa sul celibato”.
Avevo già compiuto 24 anni e Maria ne aveva 20. Eravamo nella primavera del 1940. Decidemmo di sposarci il 15 giugno pensando di usufruire del premio delle 3000 Lire, che sarebbe stato per noi un aiuto consistente.
Mi recai all’ufficio competente per fare le pratiche; mi dissero che occorreva una copia del matrimonio celebrato in Comune e dopo si faceva quello religioso. Ma per ottenere quel documento ci volle un mese e mezzo.
Ottenni alla fine quel documento, ma quando tornai all’ufficio competente ebbi un’amara sorpresa: la legge era decaduta e non c’era più nulla da fare.
Malgrado fosse fallito questo desiderato aiuto, eravamo già impegnati col matrimonio civile e pensammo di rispettare la data del 15 giugno per quello religioso.
Io ero preoccupato per il mancato premio e pensavo alle spese che dovevo fare, ma in quel periodo ebbi uno stimolo nel mio lavoro. Ottenni la qualifica di “operaio di prima categoria” con un consistente aumento di paga e la certezza del posto di lavoro.
Questo fatto mi diede più coraggio per affrontare il futuro.