tratto da: GENTE DI GAGGIO - Anno IV - N. 9 - Giugno 1994
La Presidente della Comunità Israelitica di Bologna, cinquant'anni fa trovò rifugio contro la persecuzione razziale nella nostra montagna, incontrandovi anche i partigiani gaggesi. Ed ora rievoca quel tempo di oppressione e di speranza, di odio e di solidarietà umana.
di Bianca Colbi Finzi
Il 20 settembre 1943 la famiglia Finzi, che abitava a Bologna, scomparve ed il suo posto fu preso dalla famiglia Florio di Modica (Ragusa). Non voglio naturalmente raccontarvi un giallo, ma proprio la cronistoria della mia vita.
Di vecchia famiglia triestina, nel 1937 io Bianca Colbi di ventun anni, studentessa della facoltà di lettere presso l'Università di Padova, mi sposai con l'ing. Italo Finzi di Ferrara e venni ad abitare a Bologna.
Nel 1938 cominciarono le leggi razziali, che ci colpirono pesantemente essendo entrambi ebrei. Ricorderò soltanto il giorno della mia laurea nell'ottobre 1939 a Bologna, dove discussi la tesi, ultima in lista per "non contaminare i colleghi ariani". Unico fatto positivo in mezzo a tutte le angherie che ci colpirono, fu la possibilità di portare a termine gli studi per chi aveva iniziato i corsi universitari.
Nel 1939 nacque Silvia, la nostra primogenita ed alla vigilia dello scoppio della guerra, il 9 giugno 1940, nacque Claudia, la nostra secondogenita. Naturalmente la nostra situazione, che andava deteriorandosi di giorno in giorno, non ci diede quasi la possibilità di gioire per la nascita delle nostre piccoline, causa le sempre maggiori difficoltà e la progressiva impossibilità di condurre una vita normale.
Alla fine del 1938 mia sorella col marito ed i due figlioletti partirono per la Palestina di allora: mio cognato era avvocato e non poteva più esercitare la sua professione; i bimbi non avrebbero potuto frequentare le scuole e come molti altri amici abbandonarono l'Italia. Mio padre, che era anche lui avvocato, si tolse volontariamente dall'albo prima di venirne espulso per motivi razziali. Intorno a noi quasi tutti gli amici e conoscenti ebrei avevano perso il posto di lavoro, vuoi che fossero insegnanti e impiegati presso un ufficio statale o una banca o liberi professionisti. Un disastro generale. A ciò si aggiungeva ogni sorta di angherie. Ci furono sequestrate le radio, le automobili; ci era stata tolta la possibilità di avere un aiuto domestico; per portare i bimbi al mare in una casa di nostra proprietà bisognava ottenere il permesso della Questura; molte donne ebree furono precettate per il lavoro obbligatorio in talune fabbriche, separate dalle altre operaie. Io fui esonerata perché avevo le bimbe piccole. Tutte cose queste ultime relativamente insignificanti di fronte alle tragedie che si stavano per scatenare.
Fra dubbi e incertezze sul da farsi arrivò il 25 luglio 1943. Mio marito ed io stavamo venendo in bicicletta a Bologna, da Budrio doveva avevamo lasciato le bimbe presso degli zii, per timore di eventuali bombardamenti su Bologna, quando sentimmo da una radio le parole di Badoglio "La guerra continua...".
Non mi dilungherò a descrivere le colline bolognesi, dove con altre donne andai ad aiutare i soldati scappati, portando loro vestiti civili e viveri, ma non potrò mai dimenticare la vista delle prime truppe tedesche che si aggiravano per via d'Azeglio e piazzavano le mitragliatrici all'angolo del Collegio san Luigi.
Mio marito alla vista dei tedeschi, non ebbe un momento di esitazione: bisognava allontanarsi al più presto da Bologna e cercare un rifugio sull'Appennino. Così un bel giorno presi la corriera per Castiglione dei Pepoli, di cui conoscevo alcuni indirizzi, fornitimi da una donna che aveva lavorato molti anni per noi e che si dimostrò assieme a tutta la sua famiglia di grande aiuto.
In poche ore fissai un alloggio per noi quattro, uno per i miei suoceri, che abitavano a Ferrara ed uno per gli zii di Budrio. Frattanto il Partito d'Azione ci aveva consegnato le carte d'identità, dalle quali risultavamo nati e residenti a Modica in Sicilia e che noi riempimmo con i nomi Florio Italo e Mongitore in Florio Bianca.
Assumemmo questi cognomi per mantenere le cifre I.F. che erano ricamate sulla nostra biancheria, ma mantenemmo i nostri nomi, sostituendo solo il cognome per non incorrere in possibili errori. Non è sicuramente facile assumere una nuova identità e raccontare al prossimo esperienze inventate, sempre nel timore di suscitare dubbi e perplessità.
Partimmo da Bologna su due vetture prese a nolo, con materassi, imbottite, biancheria e vestiario ed una certa somma di denaro, che fortunatamente mio marito era riuscito a ritirare dal nostro conto corrente, che poco dopo fu bloccato (come furono bloccati tutti i conti correnti degli ebrei), e dal quale ancora per poche volte riuscii a ritirare 500 lire alla settimana.
Castiglione è una piacevole cittadina ed io ne serbo un grato ricordo, pur essendoci fermati lì solo dal 20 settembre ai primi di dicembre.
Intanto il mondo ci stava crollando addosso. Arrivarono gli zii, ma dei nonni nessuna notizia. Finalmente verso il 20 novembre arrivò una lettera indirizzata fermo posta alla "dada", che non ci aveva voluto lasciar partire senza di lei, nella quale la nonna ci comunicava che il nonno era stato arrestato dai fascisti la notte del 15 novembre e si trovava in carcere a Ferrara.
II giorno dopo scesi a Bologna con l'intenzione di andare a Ferrara per cercare qualche strada per ottenere la liberazione di mio suocero. Andai io, che ero poco conosciuta e non mio marito, che essendo ferrarese, probabilmente sarebbe stato subito fermato. Ma fui dissuasa da alcuni amici del Partito d'Azione, che meglio di me sapevano che purtroppo nulla si poteva fare.
Mia suocera tramite il vescovo di Ferrara [mons. Ruggero Bovelli, n.d.r.] riuscì a far ricoverare il nonno nell'infermeria del carcere, ma purtroppo ai primi di febbraio fu trasferito al campo di Fossoli e di lì successivamente ad Auschwitz.
Ci restano di lui alcune cartoline spedite da Fossoli a persone amiche, che ce le hanno consegnate al nostro ritorno alla fine della guerra.Così nel nulla è finito assieme agli altri milìoni di deportati. Un uomo retto e generoso, combattente quale ufficiale nella prima guerra mondiale, colpevole solamente di essere ebreo.
Ai primi di dicembre decidemmo di abbandonare Castiglione, perché non ci sembrava un posto abbastanza sicuro e su una piccola carta del Touring trovammo segnato un paesino, che era lontano dalle strade provinciali: Burzanella.
Ci arrivammo naturalmente a piedi con le bimbe a dorso di somaro in una giornata fredda e piovosa. Trovammo una buona sistemazione nel centro del paese, facemmo vedere per la prima volta le nostre carte d'identità false al padrone di casa e tutto andò bene.
Intanto ci raggiunse mia suocera, scappata da Ferrara, allorché, mi pare il 2 dicembre 1943, fu pubblicato l'ordine che tutti gli ebrei dovessero essere rinchiusi nei campi di concentramento. Poco dopo arrivò mia zia, sorella di mio padre fuggita da Trieste, dove aveva lasciato il marito, già da tempo ricoverato al manicomio, da dove in seguito fu prelevato e deportato ad Auschwitz.
Questa zia di origine austriaca parlava il dialetto triestino con pronuncia tedesca: un vero disastro! Stette sempre con noi, col divieto assoluto, povera donna, dì parlare davanti ad estranei, fingendosi muta.
Nota comica, in mezzo a tanti guai: un ricco contadino del paese l'avrebbe voluta sposare .... perché apprezzava tanto una donna che non parlava mai!
Burzanella è stata quasi un'oasi di pace in mezzo alla bufera, nonostante i momenti paurosi che vi abbiamo passato. Rimanemmo lì dai primi di dicembre del 1943 sino all'aprile del 1945, alla liberazione di Bologna.
Se vado indietro nel tempo e ricordo il periodo trascorso in quel piccolo villaggio mi sento sempre molto emozionata: lì ho potuto veramente apprezzare la bontà delle persone semplici, la loro disponibilità, la bellezza della vita vicino alla natura, lontano dalla confusione delle grandi città, lontano dalle invidie e dalla malevolenza.
Erano di sicuro periodi di una gravità eccezionale e forse da ciò derivava la solidarietà fra la gente e l'aiuto reciproco.
Ci inserimmo facilmente nella nostra nuova residenza; andavamo nelle cascine a far provvista di formaggi; all'epoca delle ciliegie i contadini ce le regalavano, perché secondo loro era meglio non mangiarle perché "facevano debolezza"; alla sera si andava a veglia e seduti intorno al camino si mangiavano le caldarroste.
Un giorno vedemmo i nostri vicini proprio disperati: la mucca che aveva partorito un bel vitellino stava malissimo con febbre molto alta e temevano che morisse. Il veterinario non poteva venire; allora con mio marito decidemmo, pur non avendo nessuna competenza in materia, di cercare di aiutarli. Sapevamo che la perdita di una mucca per dei contadini è un danno gravissimo. Avevamo portato con noi da Bologna parecchi medicinali ed alcune scatole di sulfamidici. Fatte le dovute proporzioni fra una persona ed una mucca rispetto al peso, proponemmo di dare un determinato quantitativo di sulfamidici alla povera bestia; i contadini accettarono il nostro consiglio e con grande soddisfazione di tutti la mucca guarì.
Ad un certo momento ci venne richiesto da alcuni sfollati se volevamo dare lezioni ad un gruppo di ragazzi, perché non dovessero perdere l'anno scolastico e così iniziammo a lavorare. Mio marito insegnava matematica, fisica e scienze, io latino, italiano, storia, geografia e inglese. Naturalmente, e certo non per merito nostro, i ragazzi riuscirono a superare gli esami alla fine della guerra.
Non avevamo giornali, non avevamo notizie; la nostra piccola radio (costruita artigianalmente da mio marito) che a Castiglione ci era stata di grande conforto, non si poteva usare per la mancanza di elettricità (a Burzanella si usavano le lampade a carburo) e la regalammo ad un gruppo di partigiani, che si erano messi subito in contatto con noi, che la potevano usare avendo un gruppo elettrogeno. Da questi giovani riuscimmo ad avere ogni tanto delle notizie, però per fortuna restammo all'oscuro di quanto succedeva nei lager tedeschi e nei campi di sterminio.
II nostro rapporto con questo gruppo fu costante e di reciproco aiuto ed i nostri incontri, quasi sempre notturni, erano improntati a grande amicizia e comprensione. Indimenticabile il primo colloquio con il capitano Nando.
Frattanto incominciarono ad arrivare alcune unità tedesche, che si fermarono abbastanza a lungo a Burzanella. Venivano dalla Toscana, dove avevano razziato moltissimo bestiame e molte mucche arrivarono in condizioni pietose.
I soldati incominciarono subito ad andare nelle varie cascine per requisire buoi e mucche. Allora, forte del mio tedesco, che sicuramente non era molto buono, su richiesta dei contadini, andai a parlare con alcuni sottufficiali, che comandavano queste unità , spiegando loro come i contadini avessero bisogno delle bestie per arare, lavorare la terra, ecc. e che sicuramente avrebbero consegnato le bestie alla loro partenza, ma che nel frattempo avrebbero provveduto a nutrirle e che erano ben disposti ad offrire ai soldati vino e pane fresco; il pane dei tedeschi era verde per la muffa. La mia missione ebbe un esito felice e quando i tedeschi si ritirarono ebbero poco tempo per pensare alle bestie.
Queste forze facevano parte della Wehrmacht. Un giorno parlando con un soldato, mi disse: "Finché siamo qui non avete da temere, ma dopo di noi verranno le SS: allora state attenti, perché saranno guai".
Un giorno alcune contadine mi pregarono di aiutarle, perché stavano trattando con dei soldati lo scambio di uova contro sapone e non riuscivano a mettersi d'accordo. Intervenni di buon grado e insistetti con i soldati perché fossero un po' più generosi, dato che le uova fresche erano una vera rarità e le donne avevano un bel po' da fare per nutrire le galline. Tira e molla finalmente si fece il contratto e come finale trionfale mi sentii dire da un soldato: "Ma sa che lei è brava a mercanteggiare come un ebreo!". Al che col mio più bel sorriso gli risposi che era molto spiritoso!
Credo che non ci sia bisogno di alcun commento e vi assicuro che rientrai a casa un po' stravolta.
Nel frattempo vennero affissi dei manifesti che avvertivano che un determinato giorno sarebbe venuto il comando tedesco a controllare la situazione delle famiglie per poter arruolare uomini. Io mi feci fare un documento regolarmente firmato da un sottufficiale di stanza a Burzanella, dal quale risultava che lavoravo come interprete presso quella unità.
Il giorno del controllo arrivarono alcuni tedeschi accompagnati da due ragazze italiane, che si fermarono nella piazza del paese con tavolini, sedie, fogli e timbri ordinando ai capifamiglia di presentarsi con eventuali documenti, permessi, ecc. Io invitai le ragazze a salire da noi per rinfrescarsi ed esse mi spiegarono che erano state prese come ostaggi al posto dei fratelli partigiani, che erano riusciti a scappare. Mi chiesero se avevo dei problemi e feci vedere loro il documento che avrei presentato. Restarono allibite e mi spiegarono che se questo documento arrivava al comando avrebbe provocato il mio immediato richiamo, avendo essi necessità di interpreti. Io feci capir loro la mia impossibilità a lasciare vecchi e bambini, che dipendevano da me, senza però accennare che eravamo ebrei.
Esse mi assicurarono che avrebbero fatto sparire il documento che avrei presentato e che a me sarebbe rimasta la ricevuta del controllo tedesco; che poteva essermi utile forse per il futuro.
Nessuno mi venne a cercare e le nostre benedizioni sono state rivolte a queste due giovani donne, che purtroppo non siamo mai riusciti a rintracciare.
Ai soldati tedeschi già in rotta si avvicendarono le SS, che dettero l'ordine di evacuare immediatamente il paese. Così ci trasferimmo nel vicino paese di Monteacuto, a pochi chilometri da Burzanella, alla fine del settembre 1944. Ci trovammo in condizioni molto precarie. Finimmo per essere ricoverati in una stalla, ammassati uno sull'altro con pochissimi viveri. Subimmo un mitragliamento da parte di aerei alleati, che ci lasciò molto scossi.
Frattanto udimmo circolare alcune notizie sulla situazione militare tedesca e così con un'altra donna mi decisi ad andare a parlare con un ufficiale delle SS, lamentando la nostra situazione insostenibile e chiedendo il permesso di rientrare a Burzanella. La risposta fu molto secca: "Non potete muovervi, il nemico è già lì". Con le lacrime (di gioia s'intende) agli occhi, ce ne ritornammo alla stalla e data la buona notizia a tutti in pochi minuti raccogliemmo le nostre poche cose e ci avviammo uno dietro l'altro verso Burzanella. Rientrammo nelle nostre case con immensa gioia, ma anche con grande incoscienza. Non pensammo un istante al pericolo che le case fossero state minate, come purtroppo era accaduto in altri luoghi. Per fortuna non successe nulla.
Poche ore dopo il nostro rientro fummo avvertiti che sulla "Serra" c'era una pattuglia alleata, che desiderava parlare con persone affidabili e così ci mettemmo in cammino. Trovammo un gruppo di sudafricani che ci accolsero con grande simpatia; ci fecero salire su di una jeep e a fari spenti ci dirigemmo verso Castiglione dei Pepoli. Ci accompagnarono al Comando, ci interrogarono uno alla volta e ci offrirono sigarette e cioccolata. Dopo aver dato le non molte informazioni che avevamo si presentò il problema di dove avremmo trascorso la notte, perché il paese era totalmente occupato dai soldati e difficilmente si sarebbe potuta trovare una stanza per noi.
Uno degli ufficiali ad un ceto punto ebbe, secondo lui, un'idea luminosa: "Le carceri - disse - sono vuote, vi potremo dare tanti panni di lana e potrete riposare benissimo". Al che gli risposi che non era sicuramente questa la soluzione a noi gradita, dopo aver sospirato per anni di essere liberati. Tutto si concluse nel migliore dei modi, perché trovammo un'ottima sistemazione presso i contadini che ci avevano alloggiato nel settembre 1943.
Il giorno della nostra liberazione era il 3 ottobre 1944, proprio il giorno del mio compleanno: penso che poche persone abbiano avuto un dono più bello di quello che ho avuto io per i miei 28 anni.
L'incontro col cappellano militare, il rabbino Ernst di Durban (Sudafrica) fu molto commovente. Egli scrisse subito ai miei genitori, che avevano raggiunto mia sorella a Tel-Aviv nel marzo del 1940, per dar loro nostre notizie, dopo due anni che ne erano rimasti completamente privi. Al venerdì sera partecipammo alla funzione ebraica in una bella sala adibita a sinagoga, dove alla gioia di ritrovarci in un ambiente amico prevalse la commozione di riudire le nostre preghiere tradizionali. I soldati e gli ufficiali erano tutti volontari ebrei, provenienti dal Sudafrica. La sala era confortevole, ma al rabbino dispiaceva che mancassero le sedie. Allora pensai di rivolgermi ai seminaristi, che conoscevo, perché erano sfollati per un periodo a Burzanella. Essi con grande comprensione e simpatia si premurarono di trovare le sedie per la sinagoga. Forse avevamo iniziato il dialogo ebraico cristiano!
Furono lunghi i mesi fino alla liberazione di Bologna ma anche se eravamo proprio sulla linea del fronte, la nostra vita stava riprendendo un ritmo quasi normale dopo tante paure, trepidazioni ed incertezze che ci avevano assillato per anni. Mio marito aveva ripreso il suo lavoro d'ingegnere alle dipendenze del governatore militare, la nostra primogenita aveva iniziato ad andare a scuola ed io continuavo le mie lezioni.
Ricordo il capodanno del 1945: i partigiani si erano riuniti nella sala al piano terreno della casa dove abitavamo noi per fare festa. Non avendo nient'altro di meglio da offrire loro preparai le "mistocchine" (farina di castagne, acqua, sale) cotte sulla stufa.
Dopo tante peripezie e difficoltà d'ogni genere la consapevolezza che con l'aiuto di Dio, la prontezza di decisione di mio marito, la mia incoscienza nell'affrontare molte situazioni difficili eravamo riusciti a portare in salvo buona parte dei nostri cari, mi ha fatto ben capire quali siano i valori fondamentali della vita. L'esperienza di quegli anni mi ha insegnato molto: la giovane studentessa, che si era laureata in fondo alla lista alla fine del 1939 era maturata in fretta, sempre più convinta della necessità di aprirsi al mondo esterno, di combattere con tutti i mezzi l'ignoranza, i pregiudizi, la malafede e l'egoismo.