Ho fatto parte della 7ª GAP fin dall’inizio della guerra di Liberazione.
Avevo 19 anni e facevo il droghiere: la mia famiglia è sempre stata antifascista e non feci molta fatica a diventare partigiano.
Io facevo parte di una squadra con il compito di individuare i gerarchi fascisti responsabili del terrorismo e le spie al servizio delle SS tedesche.
Una mattina dell’estate 1944, insieme ai compagni Gioti e «Pocc», stavo avviandomi fuori porta Zamboni per bloccare nella sua abitazione, prima che uscisse, un capitano della milizia fascista responsabile di eccidi di partigiani.
Nel sorteggio che quella volta facemmo io ero stato scelto a compiere l’azione personalmente: gli altri compagni sarebbero rimasti all’esterno ad aiutarmi.
Mentre mi avvicino alla casa del gerarca mi accorgo che nella strada c’era un assembramento fascista.
Io ero in bicicletta e armato di due pistole: non potevo più tornare indietro e decisi di affrontare il rischio.
Mi fermarono e uno di essi mi chiamò per nome. Ormai non c’era più speranza di venirne fuori.
Uno di questi disse: «Vieni avanti».
E io che volevo che fossero loro ad avvicinarsi, dissi: «Cosa volete?»
Intanto mi venivano incontro minacciosi. Io allora estrassi la pistola e sparai cercando di colpirne il più possibile.
Ne distesi tre o quattro e gli altri, sorpresi, si sbandarono.
Dopo un attimo di esitazione dovuto al fatto che non sapevo se fuggire a piedi o in bicicletta, decisi per la bicicletta, superai il blocco facilitato dal fatto che i fascisti si erano per il momento rifugiati da qualche parte.
Qualche attimo dopo sentii raffiche di mitra che mi fischiavano attorno e io andavo al massimo della velocità, procedendo a zig-zag.
Non mi colpirono e riuscii a infilare le strade di campagna e poi a raggiungere la base di via dei Mille.
Anche Gioti e «Pocc» si erano salvati, dileguandosi in tempo.
Alla fine dell’ottobre 1944 i tedeschi sorpresero tre partigiani, Bartolini, Pizzoli e Zuppiroli, in una casa colonica fuori porta Galliera.
Li arrestarono e poi li impiccarono a Corticella attaccati ai cavi del tram.
Io ero nella fornace della Casa Buia, con altri partigiani, quando i tedeschi fecero il rastrellamento e mio padre ci avvertì in tempo e noi potemmo andarcene.
Al ritorno caddi però nel rastrellamento tedesco; mi arrestarono e mi rinchiusero nel porcile della stessa casa dove c’erano dei partigiani.
Mi lasciarono lì tutta la notte e io sentivo che i tedeschi stavano saccheggiando tutto.
Al mattino mi fecero caricare tutta la refurtiva sui carri e poi mi legarono le mani dietro la schiena e mi portarono al comando tedesco di Corticella, mi interrogarono poi mi trasferirono al comando tedesco di via d’Azeglio.
Mi interrogarono ancora e poi mi misero in prigione nella caserma dei rastrellati nell’artiglieria.
La caserma era piena di disperati. Si sospettava che ci avrebbero tutti mandati nei campi di concentramento in Germania.
Io pensai subito di fuggire.
Poi vennero alcuni briganti neri e chiesero se c’era qualcuno che fosse disposto ad andare a Cremona a lavorare per i fascisti: io dissi subito di sì e con me un’altra ventina di giovani.
Allora ci portarono nella caserma di via Castelfidardo, in attesa della partenza.
La mia idea era quella di partire e poi di eliminare la scorta fascista durante il viaggio, ma nessuno fu entusiasta di questo mio piano e allora decisi di fuggire da solo.
E ci riuscii la stessa notte proprio sotto gli occhi della guardia.
Non andai nemmeno a casa.
Poche ore dopo ero già nella base partigiana di via Lame coi miei compagni della 7ª GAP.