L’adesione agli ideali della Resistenza era maturata negli anni della mia prima giovinezza con la constatazione dell’incapacità del fascismo di capire i giovani, di interpretarne le speranze e di offrire ad essi valide prospettive a cui si era unito, poi, il convincimento che il fascismo voleva i giovani ingabbiati nella rete del suoi miti rozzi e disperati.
Tale adesione, ancora prima del 1943, era cresciuta alimentandosi, giorno dopo giorno, con l’esempio di grandi educatori.
Essi, per la forza del loro spirito, emergevano nel grigiore conformistico di quei tempi non facili, nei quali tuttavia venivano preparandosi le scelte decisive che gli avvenimenti successivi inesorabilmente avrebbero imposto.
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Il loro insegnamento fu determinante per quelle scelte, come lo fu il loro incoraggiante assenso ed il conforto della loro fiducia.
In particolare voglio ricordare Mons. Anselmo Schiassi, Parroco di San Paolo Maggiore. Egli mi aveva seguito fin da ragazzo nella mia qualità di appartenente alle organizzazioni giovanili cattoliche.
A quelle organizzazioni egli aveva dedicato gran parte della sua vita nel corso della quale aveva suscitato molteplici iniziative sociali e culturali. Frequentemente egli ci intratteneva con il racconto delle dure violenze subite dalle sedi delle sue organizzazioni ad opera delle squadracce, indicandocene, senza giri di parole, gli ispiratori.
Egli ci sollecitava a verificare la realtà che ci circondava, aggiungendo che essa richiedeva di essere modificata in nome dei principi ai quali ci ispiravamo.
Ricordo anche Mons. Faggioli, Parroco di San Giovanni in Monte, animatore instancabile della raccolta delle forze giovanili cattoliche nella Resistenza.
Presso l’abitazione di Mons. Schiassi fissai la mia base cittadina, alla quale mi riferivo, venendo da Vado, nella fase operativa della organizzazione della Resistenza dopo l’8 settembre 1943, fino a quando, cioè, non raggiunsi definitivamente la Brigata «Stella rossa».
Di questo periodo ricordo i contatti con Raimondo Manzini, presso «l’Avvenire d’Italia», con l’avv. Fulvio Milani, con Giancarlo Pascale e con molti altri amici.
Notevole rilevanza aveva avuto anche l’esperienza maturata, con lo scambio culturale intenso e per me prezioso di insperati apprendimenti, con altri giovani studenti di Bologna raccolti intorno alla rivista «Setaccio».
Gli interessi culturali, che si muovevano all’interno di questo gruppo di giovani, rappresentavano già, per il modo di essere e per come si venivano collocando nei confronti del potere, una rivolta quasi inconsapevole.
Essa lasciava il segno anche tra molti coetanei, attenti alla novità del nostro comportamento, in quanto esso si poneva fuori dei confini della cultura ufficiale.
Ricordo, accanto a Pier Paolo Pasolini, che del gruppo divenne uno dei principali animatori, giovani intellettuali come Augusto Pancaldi, Fabio Luca Cavazza, Luigi Vecchi, Achille Ardigò, Natalino Marotta, Fabio Mauri, Mario Ricci.
Fra tutti era nata, più consapevole, l’insofferenza per quanto ci era stato imposto nel passato; la coscienza, giorno per giorno, ci faceva amaramente avvertiti per cui, seppure con esitazioni, si veniva affermando l’esigenza di ricercare vie nuove ed alternative per il nostro avvenire.
Dal distacco sempre più aperto giunsi alla decisa contrapposizione al regime, assistendo ai tragici fatti del 1943.
L’8 settembre mi trovavo vicino a Vado, presso i miei nonni, quando i soldati, addetti alla sorveglianza della Ferrovia «Direttissima», abbandonarono i loro reparti, lasciando le armi che io raccolsi e nascosi per sottrarle ai tedeschi che si accingevano a rastrellarle.
Per giorni e notti le raccolsi e le conservai, certo che esse sarebbero state utilizzate nella lotta, che doveva coronare la speranza di liberazione di un popolo che aveva molto sofferto e che aveva già manifestato di essere contro la dittatura e la guerra.
Ancora prima del luglio 1943 avevo avuto contatti con Umberto Crisalidi, antifascista di vecchia data e raro esempio di saggezza, coraggio e capacità.
A lui confidai subito delle armi recuperate e con lui e pochi altri ponemmo le prime basi organizzative e politiche della resistenza attiva e militare nella Valle del Setta e del Reno.
Ricordo una riunione svoltasi nella canonica della Chiesa d Vado; credo sia stata la prima riunione ad un certo livello.
Da Bologna, per presenziarvi, era venuto anche Leonildo Tarozzi.
In quella occasione fu praticamente convalidato l’affidamento del comando militare della brigata in formazione a Mario Musolesi, detto il «Lupo», che era rientrato a casa dopo avere, a Roma, partecipato, l’8 settembre, alle azioni condotte contro i tedeschi dai reparti della divisione «Ariere», cui aveva appartenuto.
Parroco, a Vado, era Don Eolo Cattani di cui ricordo un episodio che mi impressionò moltissimo e che riguarda l’esplicita e dura condanna di Hitler pronunciata nella sua chiesa di fronte ai numerosissimi fedeli raccolti per la Messa principale della domenica.
Erano i giorni dei tempi ruggenti in cui, per la venuta di Hitler a Roma, le autorità avevano imposto alle famiglie che occupavano edifici posti lungo la ferrovia o nelle sue vicinanze, di esporre bandiere e di nascondere con verdi fronde le concimaie, le stalle e le case più povere affinché non si fossero offerte allo sguardo dell’ospite in transito.
Egli, quella domenica, disse che di tutto questo, quella «figura» non era meritevole perché assertore di principi che non si dovevano condividere e che ogni buon cristiano doveva respingere.
Il lavoro di potenziamento del nucleo organizzativo, appena costituito, si sviluppò alacremente con la partecipazione anche di Alfonso Ventura, che si era unito a noi tra i primi.
Il gruppo di uomini, raccolto attorno al Lupo, Gianni Rossi e Alfonso Ventura aumentava di numero.
Molte furono le difficoltà da superare e tanti i pericoli che si presentavano quasi ogni giorno, ma ognuno contribuì con il suo apporto a rendere più efficiente l’organizzazione.
Essa ormai abbracciava l’intera vallata del Setta, di grandissima importanza militare per le vie di comunicazione che in essa vi erano situate.
Allo scopo di allargare i contatti, mi fu affidato il compito di stabilite collegamenti nella Valle del Reno.
Mi recai varie volte a Vergato, dove incontrai Brizzi, Bonani ed altri.
Nel corso di una di queste missioni rischiai di cadere in un agguato al quale sfuggii, riparando a Pioppe di Salvaro presso Padre Colia, che vi era parroco. Egli continuò poi sempre a prestare aiuto ed assistenza agli uomini della brigata e così fecero tutti i bravi parroci della zona in cui operò la nostra formazione partigiana.
Molti di loro con la vita attestarono la loro fedeltà al sacro ministero nei giorni tragici della strage di Marzabotto.
Per tutti basterà ricordare come seppero morire Don Marchioni e Don Fornasini, eroi popolari della Resistenza, vicini fino all’ultimo alla popolazione martirizzata. A Marzabotto stabilii un proficuo collegamento con Mario Degli Esposti che conoscevo avendo con lui frequentato la stessa scuola a Bologna.
L’attività coordinata in modo esemplare da Crisalidi si svolgeva frenetica.
Il consenso della popolazione verso le forze della resistenza era completo, come totale era l’isolamento del fascismo.
A Bologna fu deciso di ricostituire a Vado il «fascio» e ne fu dato avviso alla popolazione con manifesti.
Tale iniziativa, tardiva rispetto ad altri centri, si poneva come una sfida al movimento antifascista di cui era nota alle autorità la presenza attiva e neppure troppo occulta.
Ci riunimmo e decidemmo di manifestare, in quella occasione, pubblicamente, la opposizione al risorgere del fascismo ed accettai di essere io a farlo. La manifestazione, alla quale presenziava un numero considerevole di autorità, venute da Bologna con una scorta armata ingente, registrò l’assoluta mancanza di adesioni da parte della popolazione.
Chiesi di parlare e pronunciai parole di dura condanna dei fascismo sepolto ieri e del tentativo odioso di farlo rinascere al servizio del tedesco invasore. Il mio intervento fu accolto da urla forsennate, da insulti di ogni genere e da furiose minacce.
La riunione fu immediatamente sciolta ed uscii non senza un certo timore dalla sala.
Appena mi trovai nella piazza di Vado mi venne incontro il medico condotto, dott. Rondelli, vecchio liberale, amico di mio nonno, il quale mi prese sotto braccio, accompagnandomi nel bar del centro di Vado e qui, in segno di solidarietà, mi offrì da bere, elogiando il mio comportamento a voce alta affinché udissero tutti i presenti.
Nessuno dei fascisti aveva osato seguirmi oltre la soglia dell’edificio ove si era svolta quella loro manifestazione.
Essi ben sapevano che la mia non era una dimostrazione isolata ed intuirono che quel primo manifesto segno di rivolta non era un atteggiamento da sottovalutare.
Esso invece rispondeva ad una precisa volontà, che traeva le sue origini e la sua forza da una larga intesa politica intorno alla quale si raccoglieva il più ampio consenso popolare.
Superando, con l’aiuto di tutti, difficoltà organizzative enormi, conciliando le inevitabili divergenze e riuscendo infine ad ottenere il riconoscimento del CLN e del Comando alleato e quindi, con l’apporto di adeguati aiuti e rifornimenti essenziali, la Brigata realizzava un potenziamento enorme e un particolare significato ebbe anche le presenza di numerosi carabinieri guidati con grande capacità dal tenente Giovanni Saliva.
Le forze nazifasciste non avevano potuto impedire il sorgere ed il successivo progressivo rafforzarsi di questa consistente presenza armata nemica a soli venti chilometri di distanza da Bologna.
Esse quindi dovevano registrare sotto questo profilo una gravissima sconfitta che comportava l’assoluta indisponibilità strategica delle più importanti vie di comunicazione nord-sud.
La brigata controllava in via assoluta una zona compresa tra Castiglione dei Pepoli, Vergato, Sasso Marconi, Loiano e il Passo della Futa.
Il significato e l’importanza della sua presenza e dell’azione militare svolta dalla nostra brigata richiede, a mio avviso, uno studio più ampio di quanto non sia stato finora fatto.
E’ certo che l’incapacità, per il comando militare tedesco, di eliminare con vari inutili tentativi la brigata, lo indusse ad usare il metodo, già purtroppo praticato altrove, della più rabbiosa reazione nei confronti delle inermi popolazioni.
La folle vendetta omicida, poi attuata, nei confronti dei civili dei comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno è il segno più evidente di quella sconfitta.