Nel settembre 1944, inquadrato nella 62ª brigata Garibaldi, operavo nella zona del «Tornello», in frazione Quinzano di Loiano, agli ordini del comandante Corazza.
Dentro una grotta c’era un ospedale partigiano: roccia, paglia, umidità, paura e sofferenza. In quel periodo seppi che mio padre era ammalato e decisi di andare a trovarlo.
Allora la mia famiglia risiedeva a Filigare, a mezza strada fra Monghidoro ed il passo della Raticosa. Partii a piedi alle due di notte ed arrivai a Filigare all’alba; avevo con me una rivoltella tedesca «P38», un pezzo di pane e di formaggio e vestivo un paio di pantaloni da meccanico ed un maglione rosso, sbiadito e rattoppato.
Quando misi i piedi sulla statale 65 due tedeschi che stavano uscendo da una casa mi videro e mi chiamarono.
Nella luce ancora incerta attraversai la strada a passo normale ed imboccai un sentiero che saliva nel bosco sul fianco della montagna che sovrasta Filigare.
I tedeschi si misero a correre e ad urlare, ma ormai non potevano più vedermi protetto com’ero dalla luce tenue e dalla vegetazione.
Più indietro negli edifici della vecchia dogana, posta sul confine tosco emiliano, i tedeschi avevano installato un’infermeria ed un presidio; quindi pensai bene di allontanarmi il più possibile in direzione opposta, verso la Raticosa.
Sempre camminando nel bosco avevo percorso alcuni chilometri e mi trovavo all’altezza di casa Cantini quando improvvisamente, bassissimo, dal passo spuntò uno «Spitfire» inglese, dal muso rosso, e dietro di lui altri tre o quattro aerei; virarono in fila di fronte a me e scomparvero nuovamente al di là del passo, mitragliando e sganciando spezzoni in direzione di Pietramala.
Presto si alzarono dense colonne di fumo. Sotto di me, sulla strada, erano fermi tre camions tedeschi. Dal bosco vidi un gruppetto di soldati precipitarsi verso un piccolo ponte più indietro di una cinquantina di metri e scomparirvi sotto.
Nel frastuono del carosello aereo saltai nella strada, trovai degli stracci imbevuti di nafta, vi appiccai il fuoco e li gettai sui teloni dei camion tedeschi, che erano pieni di casse; nella cabina dell’ultimo camion, dallo sportello aperto, vidi delle armi.
Presi tre bombe a mano, una «Machinen-pistole» e tre caricatori.
Non avevo mai usato granate tedesche, ma ne intuii il funzionamento.
Tornai sui miei passi, svitai il coperchio del manico delle bombe e correndo a più non posso le innescai una alla volta gettandole alla svelta dentro i cassoni: un regalo per ciascuno di essi. Di corsa arrancai per il monte, col cuore in gola.
Le esplosioni furono quasi contemporanee e subito un’unica grossa, enorme esplosione.
La macchia, per un raggio d’una ventina di metri, perdette completamente le foglie che volarono per l’aria come uno stormo d’uccelli impazzito. Lo spostamento d’aria mi spinse su per la salita fin che non rimasi come incollato ad una ceppaia di faggio.
Sentii un gran freddo all’orecchio sinistro e dentro la testa; il naso prese a sanguinare e non smise neppure quando, ripetutamente, mi bagnai con l’acqua gelata di un fosso.
Se mi soffiavo il naso sentivo l’aria uscire dall’orecchio. Per un po’, dopo l’esplosione, vidi rincorrersi per l’aria dei segni che sembravano delle onde, che sfumavano o accentuavano l’azzurro del cielo.
Uno «Spitfire» si staccò dalla formazione e venne a mitragliare le carcasse disintegrate dei camions, i crateri sulla strada, e... le colonne di fumo.
Feci venire notte fonda accovacciato quasi sulla cima del monte, in mezzo alla macchia, fitta, con la fame che cresceva.
All’alba del giorno dopo rientrai in formazione con lo stomaco vuoto, ma con in più una preziosa «Machinen-pistole» e tre caricatori pieni.
Seppi poi da mio padre che erano occorsi cinque giorni per riparare i danni alla strada.
Seppi anche che gli aerei quel giorno avevano messo fuori uso un’intera colonna di camions tedeschi in vicinanza di Pietramala.