L’8 settembre 1943 mi trovavo a Modena, di guardia all’Accademia militare, come caporale del reparto ordinanza.
Due giorni dopo vennero alcuni tedeschi, bussarono alla porta e, come se niente fosse, il capitano Cavalletti, del reparto ordinanza (che già ci aveva ordinato di togliere le cinghie dei fucili in attesa di consegnare le armi) li fece entrare con la conseguenza della resa.
I tedeschi ci fecero uscire incolonnati per portarci all’interno della caserma del 36° Reggimento fanteria.
Qui inviarono gli ufficiali superiori in Germania, mentre a noi chiesero di arruolarci fra i fascisti. Nessuno aderì, nemmeno i carabinieri, e intanto, a gruppetti, cominciarono le evasioni.
La sera del 24 settembre i tedeschi ci riunirono ancora nella piazza d’armi per intimarci nuovamente di aderire alla repubblica sociale fascista, però con lo stesso risultato negativo: ricordo che per costringerci ad aderire un prete cappellano giunse persino a bastonarci.
Dopo l’appello, che fu l’ultimo, io decisi, insieme ad altri, di tentare la fuga attraverso le fognature: si trattava di passare in una lunga tubazione del diametro di 60 centimetri, piena di escrementi, e ce la facemmo grazie al fatto che una prostituta, di nome Dolly, ci aveva fatto avere una bottiglia di acqua di colonia e con questa avevamo imbevuto le pezze da piedi con le quali ci coprimmo la bocca e il naso.
All’uscita trovammo il «capo famiglio» dell’Accademia, Bonacini, che era un antifascista, che ci salutò al grido di «viva Stalin», dopo di che le donne della lavanderia ci misero nelle vasche per lavarci e poi ci vestirono alla meglio.
Poi arrivarono i tedeschi, ma noi eravamo già al sicuro nel granaio.
La mattina del 25 settembre io ed altri bolognesi, ci dirigemmo verso Bologna con delle biciclette che ci avevano dato dei contadini della zona di Campegine.
La sera del 25 settembre ero a casa, in via San Vitale, da mia madre.
Passai l’inverno facendo il barocciaio col corriere Monti, il quale, essendo di Calderino, aveva dei rapporti coi partigiani. In giugno, quando venne il «bando» fascista di Almirante, io, insieme a Giorgio Martinelli, Rubens Borghi, Gastone Sgargi e Bianchi di Molinella, mi avviai verso Calderino.
Con noi c’erano anche due carabinieri che avevano delle armi. Nei pressi di monte San Pietro, ci diedero la parola d’ordine e ci fermammo da un contadino.
Il 19 mattina, mentre marciavamo verso la montagna alla ricerca del Lupo (Mario Musolesi), siccome non si vedeva nessuno, decisi di sparare un colpo in aria.
E allora da dietro un albero vedemmo apparire un indiano, col turbante, il quale ci chiese cosa cercavamo: era Sad, un ufficiale indiano, che era della «Stella rossa».
Egli ci guidò all’accampamento del Lupo e fu così che entrai nella «Stella rossa».
Il Lupo sospettò subito che fra di noi ci fosse una spia e ci fece levare le scarpe; infatti, nel tacco di uno di Casalecchio che si era aggregato a noi, c’erano delle foto del Lupo. Effettivamente era una spia e fu giustiziato.
Per procurarci delle armi, il Lupo fece una pattuglia, guidata da Gianni Rossi, e la inviò a Tolé di Vergato.
Qui fu disarmata la caserma del fascio e recuperate le armi. Poi ci trasferimmo a monte Ombraro dove subimmo un rastrellamento.
Si sparò tutto il giorno e, giunta la notte, ci contammo e constatammo che mancavano alcuni giovani disarmati, fra cui Tonino Cavalieri.
I tedeschi li avevano catturati e poi li portarono in Germania. Vi fu, quella stessa notte, un diverbio assai aspro, fra il Lupo e Sugano il quale voleva andare a Montefiorino con Armando, dove in effetti andò con un consistente gruppo di armati.
Io rimasi col Lupo e andammo nella zona di monte Sole, a Marzabotto, dove la brigata si riorganizzò e vennero formati tre battaglioni di tre compagnie ciascuno, per un complesso di circa 350 uomini, e in più c’era un quarto battaglione in formazione composto da 40 partigiani sovietici al comando del tenente Karaton e coordinato da Gastone Sgargi, che si avvaleva, come interprete, di Ubaldo Mastacchi, di Monzuno, che conosceva bene la lingua.
Nel comando, che aveva sede a Cadotto, il Lupo aveva con sé il vice comandante Gianni Rossi, le sorelle Olga, Brunetta e Anna Maria, due inglesi e un furiere (Giuseppe Castrignano).
I comandanti di battaglione erano Walter Tarozzi, Celso Menini e Otello Musolesi e poi Cleto Comellini diverrà, con l’afflusso di giovani da Vado, comandante di un quarto battaglione. Il posto di Walter Tarozzi fu poi preso da Ottorino Ruggeri. Io facevo parte del battaglione di Otello Musolesi, col grado di capo squadra.
Il Lupo era un bravo combattente, però come comandante era un centralizzatore e non amava ascoltare i consigli dei compagni.
Si considerava un indipendente e limitava al massimo i rapporti col CLN (che venivano tenuti dal commissario Umberto Crisalidi e dal fratello Guido). In forza di queste sue opinioni ostacolò per lungo tempo l’attività dei commissari politici, ad eccezione di Crisalidi per il quale aveva fiducia essendo un antifascista del luogo.
Infatti più volte il CUMER inviò dei commissari in brigata anche per le esigenze di coordinamento, ma la vita dei commissari fu difficile e molti dovettero rinunciare. Fa eccezione il caso di Ferruccio Magnani che restò col Lupo fino alla vigilia del rastrellamento di settembre.
La mattina del 29 settembre io mi trovavo con la mia squadra alla Casetta, nella frazione di Casaglia.
Eravamo stati avvertiti che i tedeschi stavano arrivando in forze e io avevo messo due sentinelle su monte Sole.
Anche il Lupo era passato dalla Casetta per dirmi di stare all’erta.
Verso le quattro del mattino (era ancora buio) diedi ordine al cuoco di fare delle scorte in viveri, in vista del peggio. Poi misi tutti in allarme.
Quaranta minuti dopo vidi coi binocoli i primi incendi dei casolari e i tedeschi che cominciavano a rastrellare in massa la gente dalle case.
Ne misero una quarantina dentro il cimitero di Casaglia, poco distante da me; un’altra parte dentro alla bottega di Caprara e noi non potemmo intervenire perché si facevano scudo degli ostaggi.
Io proposi, se non altro, di scendete per creare dello scompiglio nella speranza che qualcuno potesse fuggire approfittando del momentaneo disordine: ma il mio comandante di battaglione non fu d’accordo e non se ne fece niente.
Dalle altre parti, frattanto, accadeva la stessa cosa. Il massacro aveva inizio in tutta la zona.
A Cadotto il comando fu sorpreso, il Lupo fu ucciso, Gianni Rossi ferito, Menini si salvò e anche Lipparini, che era di guardia. Così finì la «Stella rossa».
Ormai Reder era padrone assoluto del campo ed iniziava il grande massacro di Marzabotto nel quale perirono 1830 fra uomini, donne e bambini.
Io restai isolato con pochi uomini nella zona, mentre Monzuno, il 5 ottobre, veniva liberata.
Il 18 ottobre anch’io raggiunsi Monzuno con sette uomini. Un’altra parte della brigata passò il fronte verso Castiglione dei Pepoli.
Alcuni vennero verso Bologna, e fra questi Karaton, ma furono sorpresi a Casteldebole il 30 ottobre e morirono in combattimento con quelli della «Bolero».
Alcuni giunsero a Bologna e parteciparono alla battaglia di Porta Lame e alle lotte dell’inverno.
Io ebbi una nuova avventura: fui infatti inspiegabilmente arrestato dagli americani a Monzuno e trasferito a Loiano, poi a Pietramala, dove fui processato per avere abbandonato il campo di raccolta e poi fui messo in carcere a Firenze e poi a San Gimignano di Siena da dove uscii l’8 settembre 1945.