Alla Resistenza arrivai ad aderire in modo, a prima vista, abbastanza singolare e soprattutto sbrigativo.
Rifugiatomi dopo l’8 settembre sull’Appennino, ai piedi del monte delle Formiche (in località Fornace di Barbarolo), venni un giorno avvicinato da un partigiano (Pesci) che mi invitò, in modo gentile ma che certo non ammetteva tergiversazioni, a tenermi a disposizione dei partigiani.
Cominciò così la mia attività di medico partigiano che divenne assai più intensa e quasi giornaliera dopo la costituzione della 62ª brigata Garibaldi, in forza alla quale rimasi fino a quando la brigata abbandonò la zona per spostarsi verso la Romagna.
Ma questo attivo impegno antifascista trova le sue origini più lontano.
Le radici della mia opposizione alla dittatura fascista risalgono al periodo liceale, quando già nel 1930-32 gruppi di studenti di varie scuole medie superiori triestine, con i quali ero a contatto, e nel quadro di una diffusa ostilità al regime degli ambienti culturali della città (che, di contro alle note spinte nazionalistiche, manteneva una sua larga apertura internazionale), ponevano in discussione la politica e gli ideali fascisti e cercavano una unione di forze che arresti e trasferimenti troncarono sul nascere, intimidendo decisamente ogni tentativo successivo.
A Bologna poi, nel periodo universitario, l’amicizia ed il contatto con gruppi di studenti stranieri, per lo più israeliti, di cui il fascismo fingeva di ergersi, allora, a protettore, alcuni profughi dai paesi nazisti, altri semplici ospiti (la maggior parte di questi ultimi provenivano dai paesi dell’Europa orientale dove l’antisemitismo trovava codificazione tra l’altro nel «numerus clausus» all’università per gli ebrei), mi permisero di rafforzare i miei convincimenti e mi prepararono, in qualche modo, a quelle terribili esperienze che furono le leggi razziali.
Solo nel tardo autunno del 1938, ebbi però la possibilità di conoscere attivi elementi di «Giustizia e Libertà» e di riprendere quindi in modo organico ed ampliare il discorso appena abbozzato negli anni precedenti; discorso che potei approfondire ulteriormente l’anno seguente, a Parigi, che avevo raggiunto in seguito alla proclamazione delle leggi razziali.
Lo scoppio della guerra, il brusco ritorno in Italia, e varie successive peripezie mi fecero perdere qualsiasi contatto, che s’incaricò poi di riallacciare in modo sbrigativo e perentorio il partigiano Pesci.
Il fatto di maggior interesse politico fra quelli da me vissuti nel periodo della Resistenza fu senz’alcun dubbio quello della «battaglia del grano» dell’estate 1944.
Il grave scacco che in quell’occasione le forze partigiane fecero subire ai nazifascisti impose in diverso modo in tutta la zona la presenza della Resistenza e modificò sostanzialmente i rapporti fra popolazione civile e partigiani, fino allora basati su una solidarietà e collaborazione essenzialmente emotive e non per questo certamente meno importanti.
Dopo la «battaglia del grano» questo rapporto si mutò: i partigiani non erano solo amici da aiutare e proteggere, ma erano la forza organizzata con cui schierarsi, da seguire ed obbedire.
Il comando partigiano ordinò dapprima di lasciare — dopo averlo mietuto — il grano nei campi, quindi di trebbiarlo, ma di non consegnarlo all’ammasso.
Di contro le «autorità» ordinavano di portarlo all’ammasso, pena dure rappresaglie.
Le questioni e le titubanze dei contadini si risolsero a favore dei partigiani quando fu vista arrivare la trebbiatrice non scortata (come molti prevedevano e temevano) da truppe nazifasciste, ma da partigiani, che poi presidiarono le aie per tutta la durata delle operazioni di trebbiatura.
Presidi nazifascisti (lungo la statale della Futa) erano a pochi chilometri di distanza (il più vicino forse a meno di cinque), ma durante tutta la fase conclusiva e decisiva della «battaglia del grano» non osarono mostrarsi, facendo cadere nel più assoluto ridicolo le loro sinistre smargiassate.
Non un chicco di grano in tutta la zona fu consegnato all’ammasso. Nella mia qualità di medico non ebbi modo di partecipare direttamente a scontri armati, ma non meno intensi sono per questo i ricordi: dai paurosi rastrellamenti, alle angoscianti difficoltà che si presentavano nell’adempimento della mia opera medica.
E d’intensità ed emozione si può certo parlare anche a proposito dell’amicizia e della solidarietà che, in quel periodo, erano sorte fra uomini praticamente sconosciuti, provenienti dai più diversi ceti sociali e dalle più di sparate esperienze.
Ma se debbo dire di un episodio credo che quello, fra i tanti, che ancora oggi ricordo con maggiore intensità ed emozione sia proprio quello del primo incontro con la Resistenza: il partigiano che mi portò l’ordine di tenermi a disposizione, la prima «chiamata», il primo soccorso a tre partigiani feriti in una grotta vicino a Castenuovo.
Dopo mesi di solitudine e di paura, con l’incubo continuo dell’arresto e della deportazione, per la prima volta non mi sentii più solo, ma soprattutto comparve la prospettiva concreta e reale non tanto della sconfitta del nazifascismo quanto di una nuova realtà italiana.
Erano ormai lunghi anni che la situazione già da prima oppressiva e depressiva andava diventando di giorno in giorno più intollerabile per effetto delle leggi razziali, per tutto quello che esse — anche nella più blanda versione italiana — volevano dire sul piano umano, civile e del lavoro.
Benché si fosse nel periodo più duro e grave, benché ancora terribili prove mi aspettassero (il 19 marzo 1944 i tedeschi arrestarono i miei genitori che, deportati, furono trucidati ad Auschwitz) quell’incontro è ancora oggi nel mio ricordo il confine fra l’ora della sfiducia e della disperazione e quella della speranza quanto della certezza della ripresa.